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martedì 26 gennaio 2016

“Io, esule di Aleppo con la forza del perdono” la testimonianza di Claude Zerez



Vatican Insider, 25 gennaio 2016
di Giorgio Bernardelli

«Quando accompagnavo i pellegrini era Pascale ad insegnare loro il Padre Nostro in aramaico». C’è tutta la vita di Claude Zerez, nell’immagine della ragazzina che proietta sullo schermo. L’amore profondo per le sue radici, il dolore per quella figlia portata via in modo brutale, ma anche lo sguardo di chi dentro la sua via crucis non è rimasto prigioniero dell’odio. 

Era il 9 ottobre 2012 quando la rapirono, mentre su un autobus da Homs stava tornando ad Aleppo. Erano milizie legate all’Esercito Siriano Libero, il fronte degli oppositori a Bashar al Assad. Aveva vent’anni, la ritrovarono cadavere. Fu allora che questo cristiano melchita di Aleppo - grande conoscitore dell’arte sacra dell’Oriente, guida di tanti gruppi di pellegrini in Siria - scrisse una lettera aperta a Francois Hollande, con parole molto forti sul sostegno politico offerto dalla Francia ai gruppi ribelli, sempre più infiltrati dai gruppi salafiti. «Avete visto come Aleppo, la città più antica è diventata una città fantasma? - scriveva nell’ottobre 2012 -. Potete immaginare Parigi come una città fantasma, dove centinaia di migliaia di famiglie francesi si aggirano in cerca di ripari per evitare spari, bombe e atti di discriminazioni arbitrarie, di fanatismo e brutalità?». 
A distanza di tempo quelle parole si sono rivelate una drammatica profezia. «Ma a Parigi è successo un giorno solo. Invece ad Aleppo da cinque anni è una storia quotidiana». A raccontarlo è lui stesso, in un incontro organizzato a Bresso dal locale Centro Culturale Manzoni, tappa milanese di una serie di testimonianze che Claude Zerez sta tenendo in questi giorni in diverse città italiane. Non analisi geopolitiche, ma il racconto di una storia che porta dentro di sé anche mille altre ferite.  

Porta al collo il rosario di Pascale: l’ha accompagnato nel suo cammino da esule. Perché anche Claude Zerez è stato costretto a fuggire lontano dagli orrori della guerra; oggi vive proprio in Francia. «Ho perso tutto quello che avevo - racconta -. Ma la cosa peggiore è ovviamente perdere una persona cara. Come credente ho trascorso i primi sei mesi a lottare con Dio. Ma la rabbia per l’assenza fisica di mia figlia, a poco a poco, ha lasciato il posto a una presenza spirituale. Quando siamo scappati da Aleppo tutti ci dicevano che eravamo matti, era troppo pericoloso. Abbiamo dovuto attraversare un’infinità di posti di blocco, ogni volta avremmo potuto morire. Ma proprio lì ho sentito accanto la presenza di Pascale, come se avesse steso un velo per proteggerci». 
«Mi chiedono spesso se abbia perdonato gli assassini di mia figlia - continua Claude Zerez - Rispondo: perdono, ma non dimentico. Ho fatto mie le parole di Gesù: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Un musulmano me l’ha sentito dire e mi ha detto: “Lei mi ha spinto ad amare di più i cristiani”. Ecco: questo è l’inizio della riconciliazione». 

Li nomina spesso i musulmani Claude Zerez. Sottolinea che sono vittima anche loro delle bande jihadiste che imperversano nel suo Paese e le cui atrocità mostra senza sconti nelle immagini durante la sua testimonianza. «Non mi sarei mai aspettato che la Siria arrivasse a questo punto dopo secoli di convivenza - commenta -. Ma ancora adesso i rapporti tra cristiani e musulmani in tante situazioni sono buoni. Quando è stata uccisa mia figlia i nostri amici hanno pregato per lei in moschea. E 40 giorni dopo alla liturgia di suffragio in chiesa c’erano più musulmani che cristiani. Siamo tutti vittime della stessa oppressione». 
Gli chiediamo dei cristiani di Aleppo, quanti sono rimasti oggi? «In una città di quattro milioni di persone, come era Aleppo fino al 2011, i cristiani erano 300 mila - risponde -. Gli ultimi dati parlano di appena 22mila cristiani rimasti. Perché fuggono? Non c’è più luce, pane, acqua, possibilità di scaldarsi. Un litro di gasolio costava un euro, oggi ne costa quattro». Sull’embargo non ha dubbi: come avveniva in Iraq colpisce solo i più poveri, favorisce il mercato nero e aggrava le sofferenze.  

Che cosa si può fare per aiutare la Siria? Risponde che la prima cosa è pregare. Ma ce n’è anche una seconda: «Uscire dall’indifferenza - ammonisce -. Noi cristiani non possiamo accontentarci di vivere tranquillamente la nostra vita. Dobbiamo ascoltare la voce di Gesù che dice: avevo fame, avevo sete… Siamo chiamati a uscire dall’indifferenza per un nuovo Esodo. Uscire da sé per andare verso gli altri: la paura oggi è il peccato più grave». 

Non vorrebbe parlare di politica, ma è inevitabile arrivarci. «Che cosa servirebbe? Mettere fine alla guerra. Basterebbe una comunità internazionale con onestà e coscienza. Invece i cristiani d’Oriente valgono meno di un barile di petrolio oggi…», commenta con amarezza. «Bashar al Assad non è un angelo e anche Putin ha i suoi interessi - spiega Claude Zerez -. Ma l’Oriente è diverso dall’Occidente, il concetto di cittadinanza non c’è. Qui viene prima l’etnia, poi la religione e solo dopo la nazionalità. Ciò che oggi vogliono i siriani è uno Stato che li protegga e faccia valere la legge. Senza, faremmo la fine della Libia». 

Descrive nel dettaglio gli orrori che lo Stato islamico sta seminando in Siria. Parla della sfida più difficile: «Quale domani per i bambini che gli uomini con le bandiere nere oggi educano a uccidere?». Ma parla anche della vita che continua, delle associazioni caritative che nel momento della prova aiutano tutti senza fare distinzioni. Della tomba di padre Frans van der Lugt, il gesuita olandese ucciso a Homs nell’aprile 2014, «veneratissima da tutti, cristiani e musulmani». 
Indica una strada. Alla politica il compito di raccoglierla.  

sabato 7 giugno 2014

Ebrei, cristiani e musulmani: il perdono via alla pace

Da: Missionline

06/06/2014
Ebrei, cristiani e musulmani: il perdono via alla pace

di Giorgio Bernardelli

Nella preghiera con papa Francesco, Peres e Abu Mazen tutte e tre le religioni pronunceranno una richiesta di perdono prima dell'invocazione di pace. Il tutto nei Giardini vaticani, in un nuovo prato vent'anni dopo quello della Casa Bianca




Durante un briefing questa mattina è stato presentato il momento di preghiera per la pace in Medio Oriente voluto da Papa Francesco in Vaticano insieme al presidente israeliano Shimon Peres e a quello palestinese Abu Mazen, annunciato a Betlemme durante il viaggio in Terra Santa. Come anticipato si terrà domenica a partire dalle 19 nei Giardini vaticani e vedrà presenti anche altre personalità religiose, tra cui il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I: un segno quest'ultimo di continuità con le giornate vissute da Papa Francesco a Gerusalemme e che dice come la riconciliazione tra le Chiese sia il segno chiesto oggi ai cristiani per mostrare a tutti la via della pace.
Tra le notizie anticipate oggi c'è anche lo schema di questo momento di preghiera, che è molto interessante. Ebrei, cristiani e musulmani pregheranno in maniera distinta, uno dopo l'altro, riprendendo testi del Tanakh (la Bibbia ebraica), del Nuovo Testamento e del Corano. Ma in tutte e tre le preghiere ci sarà un filo rosso ben preciso: un primo testo rivolgerà lo sguardo alla creazione, il disegno originario di Dio e quindi la radice della pace. Un secondo testo sarà una richiesta di perdono per le nostre colpe da cui nascono le guerre e ogni forma di inimicizia. E infine ciascun momento si concluderà con un terzo momento di preghiera, quello vero e proprio dell'invocazione alla pace.
È bello osservare come in questo schema - pur senza nessuna confusione tra la preghiera delle diverse religioni - ci sono punti di riferimento che accomunano, quasi a rendere visibile una grammatica profonda nello sguardo dell'uomo sul mistero di Dio. Una grammatica più forte di ogni divisione. In fondo è un modo per rendere visibile in un'altra forma quella stessa immagine dell'abbraccio tra il Papa, il rabbino e l'imam davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme, rimasta così impressa nel cuore di tutti. L'abbraccio della pace per compiersi ha bisogno di uomini che si riconoscano figli dell'unico Padre e capaci di chiedere perdono. Forse è questa la lezione più grande che arriverà dai Giardini vaticani.
Insieme a una constatazione: si sottolinea il significato religioso e non politico di questo momento. E molti tendono a leggerlo come un modo per mettere le mani avanti rispetto ai risultati, che nel contesto di oggi è difficile immaginare immediati. Forse invece sarebbe più giusto vedere in questa sottolineatura una direzione ben precisa da dare al cammino verso la pace: troppe volte si è parlato di Gerusalemme pensando che la religione sia la causa del conflitto, illudendosi che solo mettendo da parte la fede sia possibile trovare un'intesa. Questa preghiera ribalta la prospettiva: dice che l'unica pace possibile a Gerusalemme deve per forza essere anche santa. E che non è un sogno impossibile se tutti si riparte da quella stessa grammatica del'umano.
Vent'anni fa gli accordi di Oslo - in cui erano state riposte tante speranze sulla pace tra israeliani e palestinesi - iniziarono sul prato della Casa Bianca. Domenica questo incontro avverrà su un altro prato, quello dei Giardini vaticani, all'ombra della Cupola di San Pietro. Il simbolismo è forte: dal prato della politica per eccellenza, a un prato simbolo dello sguardo dell'uomo verso il Cielo. La speranza è che - nonostante le difficoltà che tutti conosciamo - questo prato possa segnare l'inizio di una nuova strada di pace per il Medio Oriente.


mercoledì 21 maggio 2014

VERSO IL VIAGGIO DEL PAPA IN TERRASANTA - 3

"Da lui ci aspettiamo parole di amicizia, dialogo, convivenza con i cittadini musulmani". L'incombente dramma siriano.

















Intervista a Mons. Maroun Lahham, Vicario del Patriarca di Gerusalemme dei Latini per la Giordania, a cura di Maria Laura Conte

OASIS, 19 maggio 2014

Un unico pellegrinaggio, ma con tappe in contesti diversi. Quali gli aspetti salienti?
«La visita si svilupperà in tre tappe, in Giordania, Palestina e Israele, che si presentano come situazioni completamente diverse. Il papa in Giordania incontrerà una comunità di cristiani felici, che possono vivere e praticare liberamente la loro fede, senza problemi di persecuzione. Prevediamo circa 40.0000 persone alla messa ad Amman e puntiamo alla massima riuscita. In Israele invece ultimamente si ripetono attacchi a chiese, conventi, moschee, da parte di alcuni fondamentalisti ebraici che, quasi ogni due-tre giorni, imbrattano con scritte offensive e minacciose edifici cristiani o musulmani. In particolare scrivono uno slogan: “pagare il prezzo”, come dire: “ci avete perseguitato nel passato, ora dovete pagare”. Sono attacchi dolorosi, ma non si può parlare di persecuzione di matrice religiosa. Le autorità fermano alcuni di questi fanatici, ma non con un’azione che li fermi definitivamente. In Palestina si risente della pesante situazione dei rapporti irrisolti con Israele, una sofferenza che si protrae da decenni ormai».

In particolare i giordani cosa si aspettano dall’incontro con il Papa?
«Per la Giordania ci aspettiamo parole di fede e di speranza, come quelle che lui solo sa dare. In Giordania tutti, il re e la regina, i principi e le principesse vogliono vedere questo papa che ha travolto il mondo. Da lui ci aspettiamo parole di amicizia, dialogo, convivenza con i cittadini musulmani. E di incoraggiamento per gli ammalati che incontrerà al sito del battesimo. A proposito dei rapporti tra la Palestina e Israele, ci auguriamo che dica parole forti di pace, giustizia e dialogo. Soprattutto ora che il processo di pace si è bloccato, gli americani se ne sono lavati le mani e hanno lasciato una situazione di stallo, urgono parole di riconciliazione. Papa Francesco, grazie al lavoro costante dei nunzi, conosce bene la realtà qui. L’assemblea degli ordinari cattolici ha già preparato un’ampia documentazione. Il papa non arriverà impreparato.

Come è stato guardato papa Francesco da parte dei musulmani in questo primo anno?
«Le richieste pervenute da parte del re, dei principi e delle principesse, le oltre 1300 richieste da parte delle ambasciate musulmane, sono segni concreti del fatto che tutti vogliono toccare questo papa, percepito molto molto molto bene. Ad oggi ancora Francesco non ha avuto modo di parlare dell’Islam, ma quello che tocca le persone non sono le parole, sono i gesti. La gente non ha bisogno di parole, ma di gesti. Quando Francesco ha abbracciato l’ammalato sfigurato a Roma, ha compiuto un semplice gesto che è arrivato a tutti i cuori. Tutto il mondo è rimasto colpito. La sua semplicità, i suoi gesti, la sua umiltà toccano tutti, anche i musulmani. Anche se non ha ancora scritto un’enciclica sull’Islam».

Anche se non farà una sosta in Siria, questo Paese così vicino sarà di fatto presente, incombente…
«Il papa ha pianto quando ha visto le foto dei cristiani crocifissi in Siria. Il Papa ha parlato del conflitto siriano come mai prima un papa ha parlato. Ha usato l’espressione “la mia amata Siria”. Solo che anche se i papi parlano, i politici restano sulle loro posizioni. Ricordo quando Giovanni Paolo II scrisse a Saddam e Bush supplicandoli di fermarsi. Ricordo che la Repubblica titolò “Il papa spera e Bush spara”. E nessuno ascoltò il papa polacco. Io spero e prego che questa crisi si arresti. Non credo che se Francesco proponesse un’altra giornata di preghiera e digiuno, la situazione cambierebbe. Quello che cambia ora è che l’esercito di Asad sta recuperando terreno, Homs è stata liberata dalle milizie. Entro due mesi l’esercito nazionale recupererà le aree perdute e poi ci saranno le elezioni di giugno, più o meno serie. Penso che la soluzione politica, di cui alcuni parlano, non sia realizzabile, perché l’esercito avrà la meglio e le milizie dovranno andarsene. Non vedo una soluzione politica, no, vedo solo quella militare al momento».

Il tema cristiani orientali e “protezione” resta un tema sensibile. Come lo interpreta?
«Quando sei una minoranza, vai dalla maggioranza a chiedere una protezione. Si chiama psicologia della minoranza. I cristiani vivevano serenamente in Siria e Iraq. Dopo l’Iraq l’alternativa proposta per la Siria, quell’al-Qaida che gioca al pallone con le teste dei cristiani uccisi, si pone come un’alternativa terribile. Penso che i cristiani in Siria abbiano davanti due alternative: o Asad com’è o i fanatici. Chi sarà eletto presidente dovrà aver capito cos’è successo in Siria, e quindi dovrà aprire porte e finestre, avere a cuore la libertà, la giustizia e il lavoro. Non si può andare avanti come prima».

Ma chi vince sul campo la guerra, non diventa ancor più prepotente?
«Un po’ di cuore alla fine lo deve avere chi vince. Sapere che ci sono stati 150.000 morti in questa crisi, deve indurre a riflettere chi governa. Penso. Almeno, io prego per questo. Questa è la mia personalissima opinione».

Questo papa come può relazionarsi con i musulmani per avere un rapporto reale?
«In Terra Santa tutto è complicato. Bisogna far attenzione a tante sfumature.
Ma penso che l’Islam fanatico, con il fallimento politico di Egitto e Tunisia, ora sia portato a essere più ragionevole. Penso che l’Islam moderato, come quello giordano e tunisino, si intenda facilmente con papa Francesco, perché non ha bisogno di tanti discorsi. Noi orientali siamo più toccati dai sentimenti, che non dai ragionamenti scolastici. A noi un gesto, un abbraccio, un sorriso, basta».

Si parla di una visita storica. Che ne pensa?
«Sarà una grande festa di popolo in Giordania».

http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/cristiani-nel-mondo-musulmano/2014/05/19/papa-francesco-si-intender%C3%A0-bene-con-gli-orientali


I profughi siriani aspettano Papa Francesco: sperano che il mondo si ricordi di loro



Agenzia Fides 21/5/2014


Una profuga siriana musulmana proveniente da Homs e un rifugiato cristiano iracheno racconteranno le loro storie cariche di sofferenza e fatica a Papa Francesco, nell'incontro che il Vescovo di Roma avrà con rifugiati, malati e disabili a Betania oltre il Giordano, durante il suo imminente pellegrinaggio in Terra Santa. Lo riferisce all'Agenzia Fides Wael Suleiman, direttore di Caritas Giordania. L'incontro con Papa Francesco si svolgerà nella chiesa – non ancora ultimata né consacrata – che sorge presso il sito del Battesimo, il luogo dove secondo la tradizione Gesù è andato a farsi battezzare da Giovanni Battista. 
Tra i più di quattrocento presenti, i rifugiati siriani e iracheni – sia cristiani che musulmani - ospitati nel Regno Hascemita saranno almeno cinquanta, e offriranno in dono al Pontefice alcune opere d'artigianato confezionate da alcuni di loro.
“I rifugiati siriani e iracheni” spiega Suleiman attendono già pieni di speranza e trepidazione la visita del Papa: tra gli iracheni, alcuni vivono la condizione del rifugiato da più di vent'anni. Tutti si aspettano che il mondo si ricordi di loro, e cambi davvero qualcosa, nell'orizzonte incerto delle loro vite ferite. 


«Ma Dio c'è ancora?»: la domanda dei profughi siriani al Papa



Vaticaninsider, 21 maggio 2014
di Giorgio Bernardelli



.... «Quanti sono i profughi siriani in Giordania? Le cifre del governo parlano ormai di 1.350.000 persone - ci risponde Suleiman - Ma non potete capire fino in fondo che cosa significhi per noi giordani questa storia se non tenete presente anche tutto il resto. Perché nel mio Paese prima erano già arrivati i profughi palestinesi nel 1967. Poi è stata la volta dei libanesi negli anni Ottanta e degli iracheni negli anni Novanta. E lo sapete che negli ultimi due anni anche gli egiziani con visto di lavoro sono raddoppiati? Sì, c'era un accordo tra i nostri due Paesi, così molti di quelli che sono scappati da Il Cairo a causa delle violenze sono venuti comunque qui».

Anche per questo nella delegazione di circa quattrocento persone che incontreranno il Papa a Betania Oltre il Giordano - il sito archeologico dove si ricorda il battesimo di Gesù - ci saranno anche i poveri e i disabili della Giordania. È infatti quasi impossibile, ormai, tracciare dei confini tra le diverse sofferenze: «Si dice: voi giordani non avete avuto la guerra, ed è vero - continua ancora il direttore di Caritas Giordania - Ma tutte le devastazioni create dai conflitti nei Paesi vicini hanno avuto ripercussioni pesanti qui da noi. Penso per esempio alle scuole dove oggi abbiamo cinquanta alunni per classe o alle difficoltà enormi a garantire l'acqua o l'elettricità per tutti. Anche la Giordania sta soffrendo. E ci chiediamo: qual è il futuro del nostro Paese?».

Anche per questo a Betania Oltre il Giordano si attende dal Papa soprattutto una parola di speranza. L'incontro con i poveri avverrà in una chiesa che è ancora un cantiere: in questo sito che il regno di Giordania ha voluto valorizzare per i pellegrinaggi cristiani, concedendo a ogni confessione la possibilità di costruire una nuova chiesa, quella latina - la cui prima pietra fu posta da Benedetto XVI nel 2009 - è ferma alla struttura muraria essenziale. Già nel mese di gennaio, però, il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha presieduto qui la liturgia dell'annuale pellegrinaggio al Giordano dei cristiani locali nella festa del Battesimo di Gesù. Un cantiere che probabilmente diventerà un simbolo anche della ricostruzione umana che i poveri e i profughi cercano oggi in questa durissima periferia del mondo.
«Tanti tra i cristiani della Siria che accogliamo qui ci chiedono: “Ma Dio c'è ancora?” - racconta Suleiman - È una domanda in cui c'è tutta la loro disperazione. E anche la nostra fatica oggi nel dare una risposta».

http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/francesco-terra-santa-34235/

domenica 18 maggio 2014

VERSO IL VIAGGIO DEL PAPA IN TERRASANTA -2

Giordania, fra i cristiani in attesa di Francesco: "Salvaci"



Vatican Insider, 17 maggio 2014
di Maurizio Molinari

Festoni illuminati sulle case in pietra, rullii di tamburi e ovunque l’odore del cinghiale alla brace. L’ultima enclave cristiana della Giordania è in festa per il matrimonio fra i ragazzi di due delle famiglie più in vista. A venti minuti di auto da Amman, siamo in un angolo di Medio Oriente dove l’alcol non è tabù, i cacciatori di maiali selvatici sono gli chef più ricercati, nelle case ci sono le Madonne incorniciate e si balla la dabke, con uomini e donne che flirtano sotto gli occhi di amici e parenti. È l’Oriente dei cristiani, in gran parte ortodossi ma anche cattolici, che si  considerano orgogliosi eredi dei bizantini ma soffrono l’assedio dell’Islam fondamentalista.

Il matrimonio si svolge la domenica e il venerdì precedente è il momento in cui le famiglie si ritrovano, conoscono, mischiano. Ci saranno un duecento persone, forse di più. Sono commercianti e imprenditori di successo che accolgono anche Hweishel Akroush, il sindaco eletto al termine di una sfida all’ultimo voto con il rivale, anch’esso fra gli invitati. Appena Akroush entra nella grande sala da pranzo, con decine di sedie lungo le pareti per far sedere tutti gli ospiti, sul lato opposto si siede l’ex rivale. Ed iniziano un dialogo nel quale molti altri intervengono. Il tema è l’imminente visita di Papa Francesco, che proprio da Amman inizierà il 24 maggio il viaggio in Terra Santa che lo porterà a fare tappa a Betlemme e Gerusalemme.
«Speriamo che il Papa parli con chiarezza ai popoli arabi», dice un commerciante di mobili, sui 60 anni, spiegando che «qui la situazione per noi si fa difficile».

Il riferimento è a un fatto recente, avvenuto in una periferia commerciale di Amman, dove il proprietario di un piccolo negozio ha annullato all’ultimo momento la vendita dell’immobile a un imprenditore cristiano su richiesta di un imam locale. È un tema vissuto con evidente pathos. «È un pessimo segno - osserva uno dei parenti della sposa - perché non era mai avvenuto prima, lascia intendere quanto i fondamentalisti vogliano emarginarci». La fedeltà nel re Abdallah è fuori questione. In ogni casa vi sono i suoi ritratti, le bandiere reali sventolano ovunque in questa cittadina di 20 mila anime - l’ultima del regno hashemita a schiacciante maggioranza cristiana - e quando Abdallah venne in visita tre anni fa fu accolto con grande calore.
«Il problema è il Fronte Islamico - aggiunge uno studente universitario, amico dello sposo - perché i Fratelli Musulmani perseguono una Giordania senza di noi, crescono dal di dentro e ci vogliono togliere l’ossigeno dal basso con una miriade di atti quotidiani».

Si spiega così la decisione di alcuni figli dei presenti di aver scelto l’emigrazione all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Anche perché fare carriera nelle forze armate o nella pubblica amministrazione è quasi impossibile per chi non appartiene alle tribù beduine che esprimono la monarchia. C’è chi è andato in Michigan e chi in New Jersey, investendo capitali di famiglia per creare piccole imprese. Non siamo di fronte a una fuga di massa come avvenuto per i cristiani di Betlemme negli ultimi dieci anni ma la tendenza è in crescita. Il sindaco lo sa, ascolta in silenzio, ed evita di sbilanciarsi. «Siamo tutti cittadini giordani e questo Paese ci ha sempre protetto» dice, a bassa voce, tenendo le mani su un bastone di legno lavorato. Ma è una posizione che l’ex sfidante non condivide: «Il mondo in cui siamo cresciuti non c’è più, i cristiani sono massacrati, uccisi, perseguitati in più Paesi arabi, le cosiddette primavere hanno peggiorato le cose e non ci resta che sperare nel Papa». La quasi totalità dei presenti assicura che sarà nello stadio di Amman per ascoltare il discorso del Pontefice, a cui guardano come una sorta di sovrano protettore nella convinzione che i leader arabi vogliano un rapporto di mutuo rispetto con la Santa Sede.

A spiegare perché è un uomo sui 70 anni, noto per possedere molte proprietà ricoprendo così un ruolo di garante della perdurante identità cristiana di Fuhais, in quanto interprete fedele della legge non scritta che vieta di vendere case ai musulmani. «In Europa ci sono tanti musulmani, i leader arabi hanno interesse che siano trattati bene - osserva - e dunque cercano garanzie dalla Santa Sede, che può chiederne per noi». Sono ragionamenti rudimentali ma a condividerli è anche un ex dipendente dell’ambasciata Usa ad Amman: «Da queste parti bisogna essere espliciti per farsi comprendere». Il batti e ribatti si prolunga per due ore, con il sindaco sempre più taciturno e l’ex sfidante rincuorato dai sostegni ricevuti, fino al momento in cui fuochi d’artificio e tamburi annunciano che «il cinghiale sta per essere servito». Viene da un braciere gigante, dove più cacciatori hanno portato la carne migliore estratta da sei maiali selvatici uccisi nell’ultima settimana. Tagliata a piccoli quadratini, ripassata in una salsa piccante e fatta cuocere e fuoco lento, la carne di cinghiale viene servita avvolta in pitte calde, accompagnata da vino rosso a volontà. È un rito culinario che nasce dalla volontà degli zii cacciatori di regalare ai futuri sposi la carne più pregiata ma in realtà esalta anche le differenze d’identità rispetto alla maggioranza musulmana. Si spiega così il consenso collettivo per quanto avvenne due anni fa, quando cinquecento capifamiglia di Fuhais invasero la strada principale protestando contro la conversione all’Islam di una ragazza cristiana locale, spingendosi fino a dare alle fiamme l’auto del futuro marito. La difesa del territorio si gioca su più fronti, perché il sentimento che prevale è quello di un assedio che cresce e la speranza è in un aperto sostegno da parte del Pontefice. 
Ma fra i coetanei degli sposi prevale il pessimismo, sono diversi ad affermare che «forse siamo l’ultima generazione di cristiani in Giordania».

http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/francesco-terra-santa-34147/


Il Papa atteso in Giordania, fra i disperati siriani




di Giorgio Bernardelli
La NBQ , 11-01-2014

.... questa volta la sosta ad Amman non risponde solo alle logiche della diplomazia, che hanno sempre imposto una tappa in Giordania a ogni viaggio di un Papa in Terra Santa. Stiamo infatti parlando di uno dei Paesi che sono toccati più fortemente dal conflitto in corso da ormai quasi tre anni in Siria. Con i suoi 6 milioni di abitanti la Giordania ha accolto un milione di profughi in fuga dal conflitto che devasta il Paese con cui confina; e ad appena settanta chilometri da Amman si trova Zaatari, la tendopoli per i profughi nata dal nulla nel deserto al confine con la Siria e diventata in pochi mesi per numero di abitanti la terza città del regno hashemita.
È un dramma che alla Chiesa della Terra Santa sta molto a cuore: anche la Caritas giordana è in prima linea negli aiuti ai rifugiati siriani. E di loro il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha parlato espressamente domenica scorsa, quando proprio ad Amman ha tenuto una conferenza stampa a poche ore dall'annuncio del Papa in piazza San Pietro. Dando anche un'anticipazione importante sul programma del viaggio: la sera del 24 maggio - a Betania oltre il Giordano, la località  dove secondo il racconto del Vangelo di Giovanni Gesù ha ricevuto il Battesimo nel fiume Giordano - Papa Francesco condividerà la cena con un gruppo di poveri tra cui anche alcuni profughi siriani.


È una notizia da cui appare chiaro come il 24 maggio si profili all'orizzonte come una specie di secondo tempo della giornata di digiuno e preghiera per la Siria indetta da Papa Francesco il 7 settembre scorso. Con un filo rosso comune all'insegna del tema della conversione: incontrare i profughi siriani proprio nel luogo del Battesimo di Gesù è un modo per dire che solo un cambiamento radicale del cuore può portare davvero quella pace nel rispetto dei diritti di tutti a cui il Medio Oriente oggi tanto anela.
Un'anteprima di questo clima la Chiesa della Giordania lo ha vissuto già  - proprio a Betania oltre il Giordano - in occasione dell'annuale pellegrinaggio al sito del Battesimo di Gesù presieduto dallo stesso patriarca Fouad Twal. Si tratta di un appuntamento che si ripete qui dal 2000 alla vigilia della festa liturgica che ricorda il gesto compiuto da Gesù, che la Chiesa universale vivrà questa domenica. Twal ha presieduto una liturgia nel cantiere (ormai avanzato) della futura chiesa cattolica di Betania oltre il Giordano, una delle sette nuove chiese delle diverse confessioni cristiane che sono in costruzione o già ultimate in questo luogo che il Regno Hashemita ha deciso di valorizzare come meta dei pellegrinaggi cristiani. Fu Benedetto XVI - durante il suo pellegrinaggio del 2009 - a benedire la prima pietra; e adesso la struttura dell'edificio è ormai quasi completata: il patriarcato latino di Gerusalemme prevede di inaugurarla ufficialmente nel 2015.
Anche il pellegrinaggio al Giordano è stata comunque un'occasione per tornare a parlare proprio delle sofferenze dei cristiani della Siria. Dal luogo dove il Papa incontrerà i profughi della guerra il patriarca di Gerusalemme ha infatti lanciato un nuovo appello per la liberazione dei due vescovi di Aleppo, dei sacerdoti che mancano all'appello da mesi e delle suore di Maaloula che si trovano tuttora nelle mani dei jihadisti siriani. Un modo per ricordare come le ferite aperte a Damasco oggi sanguinino in tutte le comunità cristiane del Medio Oriente. Così come la loro richiesta di un futuro che non sia in balia di chi innalza le bandiere di al Qaida sui campanili delle chiese.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-papa-atteso-in-giordania-fra-i-disperati-siriani-8163.htm

mercoledì 22 gennaio 2014

GINEVRA 2 : l'appello di Papa Francesco. Le opinioni della stampa.




























(a cura Redazione "Il sismografo")

Testo dell'appello del Santo Padre:
"Oggi si apre a Montreux, in Svizzera, una Conferenza internazionale di sostegno alla pace in Siria, alla quale faranno seguito i negoziati che si svolgeranno a Ginevra a partire del 24 gennaio corrente. 
Prego il Signore che tocchi il cuori di tutti perché, cercando unicamente il maggior bene del popolo siriano, tanto provato, non risparmino alcuno sforzo per giungere con urgenza alla cessazione della violenza e alla fine del conflitto, che ha causato già troppe sofferenze. 
Auspico alla cara nazione siriana un cammino deciso di riconciliazione, di concordia e di ricostruzione con la partecipazione di tutti i cittadini, dove ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere ed abbracciare".
http://ilsismografo.blogspot.it/2014/01/Ginevra2-appello-Santo-Padre-Siria-riconciliazione.html

La guerra in Siria ha troppi sponsor internazionali. Ecco perché Ginevra II non la fermerà


 TEMPI, 22 gennaio  2014
di  Rodolfo Casadei
......
La priorità assoluta nell’attuale crisi è un cessate il fuoco su tutto il territorio della Siria, insanguinato da un conflitto che ha già causato 130 mila morti. Esso può essere ottenuto solo attraverso pressioni molto decise degli sponsor internazionali sui loro protetti locali: le armi taceranno se lo vorranno l’Arabia Saudita (padrino del Fronte islamico), Turchia, Stati Uniti e Unione Europea (padrini del Libero esercito siriano), la Russia e l’Iran (padrini del governo di Damasco), e quando Ankara si deciderà a sbarrare il passaggio di jihadisti attraverso il suo territorio ......

Leggi di Più: Perché Ginevra II non fermerà la guerra in Siria | Tempi.it


Ginevra 2, per la Siria la pace resta lontana


di Giorgio Bernardelli
La Bussola Quotidiana , 22-01-2014 

Anche se tutti la chiamano da mesi Ginevra 2 si apre oggi a Montreaux (per non dare troppo fastidio al Salone dell'orologeria). Ma l'attesa conferenza internazionale sulla Siria a Ginevra ci arriverà comunque: succederà venerdì, quando tutti sperano che si svolga davvero il faccia a faccia tra la delegazione del governo di Bashar al Assad e i ribelli che da ormai tre anni si combattono nella grande carneficina di cui l'Onu ha addirittura smesso ormai di conteggiare i morti.
Non si apre certo nel migliore dei modi Ginevra 2, dopo l'incredibile balletto di lunedì quando il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon - dopo un invito last minute inviato anche all'Iran - è stato costretto a ritirarlo per via della minaccia della Coalizione nazionale siriana (la rappresentanza politica del fronte dei ribelli, sostenuta anche da Washington) che altrimenti non avrebbe partecipato ai lavori. Motivo? Il fatto che Teheran avesse parlato di trattativa «senza precondizioni». Che, tradotto in parole povere, significa senza sottoscrivere a priori quella «transizione senza Assad» sulla quale quasi venti mesi fa i cinque grandi del Consiglio di sicurezza dell'Onu si erano accordati (si è visto con quanta convinzione) in occasione del vertice che viene chiamato Ginevra 1.
Chiunque sappia qualcosa di Medio Oriente sa bene che proporre una precondizione del genere oggi all'Iran è come chiedergli una capitolazione. Eppure la mossa della Coalizione nazionale siriana - e dei suoi potenti padrini a Riyad e nei Paesi del Golfo - è servita a mettere in chiaro una cosa: chi è il nemico vero nella guerra che si sta combattendo sulla pelle della Siria.

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Che i Paesi partecipanti abbiano un sussulto di dignità e di libertà e mettano al primo posto le aspettative di pace del popolo siriano e non gli interessi particolari della politica


La scelta di convocare l'Iran, pur opportuna, è stata contestata dall’opposizione anti-Assad, cosicché gli Stati Uniti hanno fatto pressione sull'Onu per annullare l'invito. 

di Patrizio Ricci 

A Ginevra 2 i paesi invitati sono numerosi. Sono stati chiamati a mandare i propri delegati oltre 40 nazioni, da ogni latitudine. Ci sono persino Australia e Corea ma non l'Iran: il paese contro cui indirettamente si combatte in terra di Siria, è stato escluso dai lavori. Potrà seguire il summit solo 'a distanza', da membro esterno, senza diritto di parola. Certo, l'Iran un modo per partecipare al negoziato ce l'aveva. Tuttavia era apparso inaccettabile: secondo il Segretario di Stato degli Stati Uniti doveva accettare in anticipo, come precondizione, l'uscita di Assad dalla scena politica e l'inclusione dei ribelli nel nuovo governo di transizione. E' proprio esattamente il contrario di ciò che era stato deciso nella precedente Conferenza 'Ginevra 1': in quell'occasione si era convenuto che la successiva Conferenza di pace Ginevra 2, non avrebbe posto pre-condizioni. L'esito degli accordi non sarebbe stato deciso 'a priori' secondo la convenienza politica di alcuni ma sarebbe scaturito dal libero dibattito politico.  



Ginevra II, Patriarca di Mosca: Fermare la guerra e liberare gli ostaggi

Kirill si rivolge ai partecipanti alla conferenza internazionale sulla Siria che si apre oggi a Montreux, in Svizzera. Ancora nessuna notizia dei due vescovi ortodossi sequestrati ad aprile 2013.

Mosca (AsiaNews/Agenzie) - Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, ha inviato un messaggio ai partecipanti alla conferenza internazionale sulla Siria, che si apre oggi 22 gennaio a Montreux (in Svizzera) auspicando che la cosiddetta "Ginevra II" metta fine alla guerra nel Paese mediorientale.
"Oggi il mondo guarda a voi con la speranza di azioni risolute, volte ad assicurare una soluzione pacifica del sanguinoso conflitto in Siria", si legge nella dichiarazione del primate ortodosso, diffusa dalle agenzie russe e in cui Kirill parla di "grande responsabilità". "La dimensione della tragedia, che da tre anni si consuma in Siria, è enorme" ha denunciato Kirill, il quale a settembre aveva scritto anche al presidente Usa, Barack Obama, contro l'allora paventato attacco militare a Damasco.
Il Patriarca ha invitato tutti gli uomini di buona volontà a fermare l'escalation di violenza in Siria, "mettere fine all'intervento dei gruppi terroristi ed estremisti, al loro finanziamento e sostegno militare dall'esterno, e dare la possibilità al popolo siriano di decidere lui stesso quale cammino intraprendere".
Il leader ortodosso ha poi indicato nella "liberazione degli ostaggi e nella protezione dei luoghi sacri e dei monumenti di valore storico e culturale", il primo passo necessario per raggiungere la pace e la stabilità.
La Chiesa ortodossa russa ha espresso più volte preoccupazione per la sorte del metropolita Boulos Yazigi (della Chiesa ortodossa di Antiochia) e del metropolita Mar Gregorios Youhanna Ibrahim (della Chiesa siro-ortodossa), sequestrati da un gruppo di militanti nell'aprile dell'anno scorso. I due leader religiosi erano impegnati in lavori di tipo umanitario nel villaggio di Kafr Dael, vicino al confine turco-siriano.

http://www.asianews.it/notizie-it/Ginevra-II,-Patriarca-di-Mosca:-Fermare-la-guerra-e-liberare-gli-ostaggi--30096.html

venerdì 20 settembre 2013

Il vero crimine è non fermare questa guerra



La Bussola Quotidiana-  18-09-2013
di Riccardo Cascioli

Stando a quanto si legge da alcuni giorni e alle dichiarazioni dei leader politici mondiali, sembrerebbe che la questione fondamentale riguardo la guerra in Siria ruoti tutta attorno al possibile uso delle armi chimiche e alla ricostruzione precisa della strage dello scorso 21 agosto compiuta a Ghouta con il gas sarin. Peraltro ci sono anche su questo punto molte perplessità.
Un primo rapporto presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu punta chiaramente il dito contro il regime di Assad quale responsabile della strage (pur senza mai nominarlo direttamente). E il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha rilasciato dichiarazioni pesanti sull’uso di queste armi e sulla necessità di punirne i responsabili, proprio il giorno dopo l’accordo tra Russia e Usa per mettere sotto controllo l’arsenale chimico di Assad. Oltretutto lo scorso 13 settembre una nota rilasciata dalle Nazioni Unite spiegava chiaramente che la Missione degli esperti incaricati di accertare quanto accaduto non è finita e che gli stessi esperti devono tornare in Siria «per completare la propria indagine e preparare il rapporto finale».  Dunque, tempi e modi scelti da Ban Ki-moon per il suo discorso sono quanto meno intempestivi e fanno nascere molte domande.
La cosa però più grave è che la questione delle armi chimiche rischia di far passare in secondo piano la vera tragedia della Siria: una guerra civile sanguinosa che va avanti da due anni e mezzo, ha provocato intorno ai 100mila morti e quasi due milioni di profughi. La testimonianza di Domenico Quirico dopo il rilascio, e le immagini viste in questi giorni delle violenze perpetrate sia dai ribelli sia dai soldati di Assad, fanno largamente percepire l’abisso di male in cui questo paese è caduto.

Gas o non gas, ciò che davvero è urgente in questo momento è fermare questa guerra, e su questo la comunità internazionale dovrebbe sentirsi tutta coinvolta. L’aver bloccato l’intervento armato di Stati Uniti e Francia è stato il primo passo, si è almeno evitata una escalation che avrebbe rapidamente propagato l’incendio siriano ai paesi confinanti. Ma non può bastare, e sarebbe davvero tragico se i paesi più influenti si sentissero già a posto con la coscienza per aver trovato l’accordo sul controllo delle armi chimiche.
Lo ripeto: è necessario fare di tutto per fermare questa guerra, il che implica – ad esempio - bloccare sul serio l’afflusso di armi verso l’uno e l’altro fronte e costringere tutte le parti a sedersi intorno a un tavolo negoziale. Passaggio sicuramente non facile perché due anni e mezzo di guerra hanno reso tutti più “cattivi” e poi le potenze regionali e mondiali devono davvero convincersi che la pace conviene a tutti, senza dimenticare – come abbiamo scritto ieri – che tra i ribelli ci sono tantissimi miliziani stranieri venuti in Siria per combattere la “guerra santa”.

Eppure, per quanto difficile, questa strada non ha alternative credibili.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-vero-criminee-non-fermarequesta-guerra-7313.htm


Maaloula, il martirio della Chiesa d'Oriente




La Bussola Quotidiana - 16-09-2013
di Giorgio Bernardelli 

La festa dell'Esaltazione della Croce - la festa per eccellenza dei cristiani di Maaloula - vissuta da esuli nelle chiese di Damasco. Mentre nella loro città continua la battaglia tra esercito siriano e guerriglieri islamisti di Jabat al Nusra.
Grazie ai reportage di Gian Micalessin mandati in onda dai RaiNews24, abbiamo potuto vedere in questi giorni quale sia la situazione in questa città dalle antichissime radici cristiane, divenuta il simbolo della sofferenza delle Chiese d'Oriente. Dopo l'assalto degli islamisti iniziato ormai una decina di giorni fa, l'esercito siriano è rientrato a Maaloula. Ma la cittadina - nota per il fatto che qui si parla ancora l'aramaico, la lingua utilizzata da Gesù - è appoggiata a una montagna impervia. E da lì i miliziani di al Nusra sparano sulle case, ormai in gran parte abbandonate dalla gente fuggita a Damasco, che dista appena 50 chilometri.
Le notizie più aggiornate ieri sera le ha fornite l'agenzia russa Itar-Tass: secondo un suo corrispondente che si trova sul posto, anche ieri gli scontri sarebbero stati molto pesanti: i ribelli avrebbero cercato di contrattaccare scendendo dalla montagna, ma sarebbero stati respinti. Una fonte dell'esercito siriano ha parlato all'Itar-Tass di 300 o 400 miliziani uccisi; numeri impossibili da verificare nella guerra di propaganda che puntualmente affianca quella che si combatte in questo angolo della Siria. Ma il dato certo è che si continua a sparare in questo luogo simbolo del cristianesimo siriaco. E dunque chi fino a pochi giorni fa affollava le sue chiese si è dovuto unire ai 450 mila cristiani che - secondo il dato fornito dal patriarca greco-melchita Gregorio III Laham - hanno già dovuto abbandonare le loro case a causa di questo conflitto. Lasciando solo gli uomini e le donne di Dio - i monaci - a tenere radicata una tradizione cristiana millenaria (e a stare accanto ai più deboli, quelli che dal cuore di una guerra non possono nemmeno fuggire).


È la storia di Maaloula, divenuta in questi giorni simbolo potente grazie anche alla sua vicinanza rispetto a Damasco. Bisognerebbe però anche cominciare a ricordare che non è una storia nuova: la stessa cosa è già successa ai cristiani di Homs, a quelli di Aleppo, agli armeni di Deir el Zor... Luoghi importanti quanto Maaloula per la storia del cristianesimo d'Oriente. Luoghi che sono come le stazioni di una Via Crucis che coinvolge intere comunità.

Proprio in questi giorni si è tenuto in Libano il Sinodo della Chiesa siro-ortodossa, che insieme a greco-ortodossi e melchiti rappresentano le tre maggiori confessioni cristiane della Siria. Bastava guardare l'ordine del giorno dei lavori per rendersi conto della situazione: tra i punti in discussione figurava la vicenda del rapimento di uno dei vescovi che avrebbero dovuto essere lì presenti: il metropolita di Aleppo Youhanna Ibrahim, sequestrato nell'aprile scorso insieme al greco-ortodosso Boulos Yazigi. Il Sinodo non ha potuto far altro che ripetere come nessun gruppo abbia rivendicato il rapimento e che la Chiesa non può far altro che appellarsi «agli uomini di buona volontà, ai religiosi e a quanti cercano la pace, siano essi governi o istituzioni umanitarie, per proseguire gli sforzi per il loro rilascio».

Ma anche questo è un dramma che, nella catena senza fine delle lacrime della Siria, ne richiama subito tanti altri. «Le chiese e i monasteri dei cristiani del Medio Oriente oggi sono distrutti – scrivono i vescovi siro-ortodossi allargando lo sguardo -, le nostre istituzioni demolite, le famiglie disperse e bandite dalla terra dei propri padri e dei propri antenati, forzate a cambiare la propria religione, innocenti per queste tragedie e violenze subite. Molti sono i martiri per i quali invochiamo la misericordia dell'Altissimo e offriamo ai parenti le nostre condoglianze. Noi vescovi del Santo Sinodo - scrivono ancora - facciamo appello alle nazioni del mondo, specialmente a quelle che hanno più influenza, affinché operino per preservare quest'area da calamità e disastri che potrebbero estendersi ad altre parti del mondo. E chiediamo ai nostri fedeli di essere pazienti e continuare a pregare nonostante tutte queste avversità, per salvaguardare la nostra storia, la nostra tradizione, la nostra fede e anche la nostra lingua siriaca (l'aramaico ndr) che fu parlata da Nostro Signore Gesù Cristo e fu anche la lingua dell'antica Siria».

Restare nei luoghi della propria storia. È quanto chiedono i cristiani di Maaloula, che si augurano di poter tornare al più presto nella propria città. Ed è quanto anche i vescovi siro-ortodossi si sono impegnati in prima persona a fare. Tra i punti in discussione del Sinodo c'era, infatti, anche la questione della sede patriarcale: storicamente sarebbe Antiochia, ma dal 1959 è già stata trasferita a Damasco, la capitale della Siria. E domani? Il Sinodo ha dato una risposta chiara: «Abbiamo deciso - scrivono i presuli - che Damasco deve rimanere la capitale spirituale della Chiesa ortodossa siriaca, mantenendo così viva la tradizione apostolica. E abbiamo insistito sul fatto che non la sposteremo da Damasco in nessuna circostanza».
Di fronte alle minacce degli islamisti, parlano anche di questo oggi i cristiani in Siria. Sapendo che la fedeltà alla propria terra e alle proprie radici potrebbe comportare anche un prezzo molto alto da pagare.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-maaloulail-martirio-della-chiesa-doriente-7295.htm


Siria, il business dei sequestri di persona. Reportage di Gian Micalessin

A Damasco e nel resto del paese l'estendersi della guerra ha portato ad un drammatico deterioramento della sicurezza. Sequestri e rapimenti si susseguono a ritmo continuo e nessuno può più dirsi al sicuro. Ma più esposti sono molto spesso i cristiani.

sabato 31 agosto 2013

Ci scusino i nostri lettori della raffica di articoli .... MA DAVANTI ALL'ORRORE NON SI PUO' TACERE!

I nostri lettori possono immaginare con quale trepidazione seguiamo le dichiarazioni di queste ore da parte di chi potrà scatenare morte e distruzione ulteriore nella amata terra di Siria.
Ma come vorremmo dar voce a tutte le parole accorate che ci giungono dai nostri amici cristiani siriani , frastornati e increduli, che eppure ci testimoniano una fede incrollabile nella Madonna di Soufanieh di Damasco ( ve ne parleremo presto) e nella Regina della Pace, nella certezza che la Chiesa del mondo intero sta pregando per scongiurare la rovina della Siria, del Medio Oriente e forse anche di più....
( pensate a quanto son gravide di conseguenze queste parole: «La Russia non permetterà che un solo missile o una sola bomba si abbattano sul territorio siriano. La Russia è e resta al fianco dello Stato siriano» Vladimir Vladimirovic Putin ) !


Oggi lo facciamo con le parole di Giorgio Bernardelli e di un altro caro amico:

Il grido di dolore dei cristiani in Siria


Chiese di rito latino e ortodosse, personalità cristiane con all'attivo tante prese di posizione contro le derive dell'Islam politico, ma anche figure che non avevano mancato di mettere in risalto le potenzialità delle primavere arabe. Persino monaci e missionari, giunti in Medio Oriente ispirati dal dialogo con i musulmani vissuto fino alla fine dai monaci di Tibhirine, oggi alzano la voce. Questa volta tra i cristiani sono proprio tutti d'accordo: l'intervento internazionale in Siria assolutamente non lo vogliono. E in questi giorni ne stanno denunciando senza peli sulla lingua le ambiguità e i pericoli per l'intera regione.

Certo, che dei leader cristiani non siano entusiasti all'idea di veder piovere missili di per sé non è una gran notizia. Ricordiamo tutti la forza con cui Giovanni Paolo II affermò il suo no alla vigilia del conflitto in Iraq. Ma nelle prese di posizione che si susseguono in questi giorni nelle chiese del Medio Oriente di fronte all'ipotesi dell'intervento internazionale che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno messo sul tavolo contro il regime di Bashar al Assad, stavolta c'è qualcosa di più rispetto all'abituale invito all'esercizio della virtù della prudenza di fronte all'utilizzo di armi che - nonostante tutte le leggende sugli attacchi “limitati e chirurgici” - seminano sempre morte e distruzione.

Questa volta tra i cristiani del Medio Oriente c'è vera e propria indignazione. Il possibile intervento è stato definito “una sciagura” dal patriarca caldeo Raphael I Sako, uno che gli effetti mirabili dell'interventismo americano in Medio Oriente li ha toccati con mano. Da Damasco il patriarca melkita Gregorio III Laham ha posto le domande scomode che nelle cancellerie si evitano con cura: «Quali sono le parti che hanno condotto la Siria a questa linea rossa? Chi ha portato la Siria a questo punto di non ritorno? Chi ha creato questo inferno in cui vive da mesi la popolazione?».

Il siro-cattolico Youssef III Younan ha parlato di «cristiani siriani traditi e venduti dall'Occidente». «Mi dispiace doverlo dire, ma ci sono dei Paesi, soprattutto occidentali, ma anche dell'Oriente, che stanno fomentando tutti questi conflitti», gli ha fatto eco dal Libano il patriarca maronita Bechara Rai. Persino una voce solitamente pacata come quella del patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal in questi giorni ha tuonato: «Con quale legittimità osano attaccare un Paese? Chi li ha nominati polizia della democrazia in Medio Oriente?».

Di fronte a questo coro c'è chi sbrigativamente se la cava dicendo che i cristiani del Medio Oriente sono collusi con Assad. Del resto - magari aggiungono pure - non avete visto come anche in Egitto il papa copto è corso a sostenere subito il golpe dei militari? I campioni della laicità a casa propria non sanno vedere la negazione del pluralismo religioso che come una macchia d'olio nell'ultimo decennio si è allargata in tutto l'Oriente. Non hanno visto il dramma dei cristiani dell'Iraq: erano un milione e mezzo nel 2003, prima della guerra; si calcola che in dieci anni l'80% abbia lasciato il Paese. Se ne sono andati perché rapiti, attaccati nelle loro chiese, trucidati. Lo stesso è cominciato a succedere in Siria non appena la rivolta contro Assad è degenerata in guerra civile: erano un milione i cristiani siriani, oggi è difficile dire quanti di loro siano nel milione di profughi scappati in Libano, ma si tratta sicuramente di una percentuale significativa. E poi ci sono le migliaia di sfollati interni che hanno lasciato Homs o Aleppo per via delle violenze delle milizie qaediste.

Tragedia nella tragedia quella degli armeni siriani che stanno vivendo la loro secondo diaspora: sì, perché all'inizio del Novecento Aleppo e Dei el Zor erano state l'approdo della marce forzate per fuggire alla pulizia etnica dei giovani turchi. Qui - appena qualche generazione fa - avevano ricostruito le loro comunità. E adesso se ne devono andare di nuovo di fronte alla persecuzione di chi dichiaratamente vuole dare vita allo “Stato islamico dell'Iraq e del Levante”.

Tutto questo per quanti sostengono il raid semplicemente non esiste. Perché le denunce “interessate” dei cristiani nell'Occidente di oggi sono molto meno virali dei video sull'utilizzo delle armi chimiche. Ed è proprio per questo che le Chiese del Medio Oriente, sentendosi tradite, hanno alzato la voce contro un intervento che guarda solo a un aspetto del dramma della Siria, senza peraltro dare, neanche a quello, risposte vere. Le notizie delle ultime ore ci dicono che anche a Londra e negli Stati Uniti i dubbi sull'azione militare crescono (e guarda caso è proprio la laica Francia di Hollande la più decisa ad andare avanti). Se anche all'ultimo momento dovessero fermarsi, l'indignazione dei cristiani del Medio Oriente sarà comunque bene non dimenticarsela. Anche senza missili, il loro dramma sarebbe tutt'altro che finito.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-grido-di-dolore-dei-cristiani-in-siria-7182.htm


I nostri due incubi: Al Qaida in casa, i missili dal cielo

edicola sacra nelle vie di Bab Tuma


Cari amici italiani,
due giorni fa mentre voi ascoltavate le notizie sugli attacchi con le armi chimiche i ribelli e i combattenti di Al Qaida che si trovano accanto a noi qui alla periferia est di Damasco, nella zona di Jobar (la stessa del presunto attacco con i gas, ndr) ci hanno regalato un ennesimo colpo di mortaio caduto molto vicino alla mia abitazione, nella zona di Bab Tuma.
Succede da mesi e io veramente non riesco (...) più a capire perché tanto accanimento nel colpire un quartiere abitato da civili cristiani. In soli 6 giorni ci sono piovute sulla testa più di 20 bombe di mortaio. Alcune sono esplose tra le case, altre sui tetti delle chiese, una in una scuola femminile diretta dalla chiesa cattolica. Ormai è chiaro, questo quartiere abitato da cristiani è un obbiettivo.
A tutto questo ormai ci stavamo abituando, ma ora a terrorizzarci s'è aggiunta la notizia della questione chimica. La minaccia degli Stati Uniti e dei suoi alleati di Francia ed Inghilterra ci lascia impauriti e sgomenti.
Da giorni vedo una grande paura dipinta nei visi dei miei fratelli cristiani. Chi può scappa in Libano. Chi non può farlo abbandona i piani alti e cerca posto negli scantinati. Da ieri abbiamo incominciato a far provviste di pane, grano, formaggio. Ma far la spesa diventa ogni giorno più difficile. In due giorni il valore del dollaro è passato da 200 a 280 lire.


In tutto il nostro quartiere si respirano paura, tristezza e preoccupazione.
Una cupa angoscia s'è insinuata nelle anime di noi cristiani di Damasco. In questa angoscia c'è un'unica domanda: ci sarà un attacco americano su Damasco? E perché l'America vuole colpirci?
Se alla base di tutto c'è la questione delle armi chimiche perché non aspettano i risultati e le prove, non accertano chi l'ha fatto? Fino ad ora non c'è nessuna prova per condannare il governo di Damasco. Qualche tempo fa il giudice svizzero Carla del Ponte, membro di una Commissione Onu ha accusato i ribelli. Medici Senza Frontiere parla di 355 persone morte durante l'attacco in quella zona non lontana dalle nostre case. Noi abbiamo sentito molte testimonianze secondo cui sarebbero stati i «ribelli siriani» ad utilizzare le armi chimiche e non le forze del regime.
Molti dei miei amici cristiani sono convinti che l'America non abbia una sola prova. Molti temono che Obama e l'America vi stiano raccontando una grossa bugia. Siamo convinti che l'attacco non risolverebbe la questione dei siriani, anzi la renderebbe più complessa, perché moltiplicherebbe il numero dei morti innocenti causando maggior povertà e spingendo molti più siriani a cercare la strada della fuga all'estero.


Tutto il mondo ormai pende dalle labbra di Obama. Che democrazia è questa? I siriani ormai possono solo sperare nella sua pietà. Che democrazia è questa? Una persona sola può arrogarsi il diritto di decidere la morte o la salvezza di migliaia di siriani. Che democrazia è questa?
Perché Obama non mostra prima le prove che condannano il regime di Damasco e dimostrano l'uso del gas nervino contro i civili? 


Da qui, dal cuore di Damasco io mi rivolgo a tutti voi italiani e a tutti i vostri politici per chiedervi: «Fermate la guerra».
Noi cristiani d'Oriente, siamo i discepoli di Paolo e Pietro, siamo i figli dei padri della Chiesa, siamo l'essenza della Cristianità. Non abbandonateci, non lasciateci nelle mani dei fanatici di Al Qaida e di chi combatte per reinsediare il Califfato e sogna di arrivare a conquistare Roma.
Cristo ci ha insegnato a non «aver paura» e noi fedeli alle sue parole ci sforziamo di non temere nulla. Ma voi pregate per noi.


Samaan 

(testo raccolto da Gian Micalessin)

http://www.ilgiornale.it/news/interni/i-nostri-due-incubi-qaida-casa-i-missili-cielo-946704.html

lunedì 1 luglio 2013

Siria spaccata, i cristiani pagano




da: La Bussola Quotidiana  29-06-2013
- di Giorgio Bernardelli

Non erano probabilmente frati francescani gli uomini decapitati mostrati in un video che ieri mattina – rilanciato da Radio France International – aveva subito fatto il giro del mondo. A smentire la circostanza è stato il Custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa (riconfermato proprio ieri dal Papa nel suo incarico per altri tre anni) che ha spiegato come dai contatti quotidiani che la Custodia tiene con i frati che si trovano in Siria nessuno manca all'appello. Ed è stato proprio padre Pizzaballa a dare la spiegazione più plausibile di quanto accaduto: il video è stato associato all'assalto compiuto domenica scorsa dalle milizie islamiste nel villaggio di Ghassanieh, sulle montagne dell'Oronte nei pressi di Idlib. Assalto durante il quale – come purtroppo già noto – è stato ucciso un monaco siriaco che da alcuni mesi viveva insieme ai francescani, padre Francois Mourad.
Non ci sarebbero dunque nuovi religiosi cristiani morti da piangere in Siria. Ma le notizie rassicuranti finiscono subito qui. Perché l'assalto al convento di Sant'Antonio da Padova a Gassanieh – dove i francescani assistevano i profughi fuggiti da Aleppo, in una zona controllata dai ribelli – è un fatto che resta. E da questo villaggio cristiano delle montagne dell'Oronte i frati se ne sono dovuti andare a Latakia, che si trova sulla costa. Il loro convento è stato devastato e occupato dalle milizie di Jabat al Nusra, il movimento islamista che è sempre più padrone sul terreno nelle aree controllate dai ribelli.
Come se non bastasse - poi - giovedì a Damasco c'è stato l'attentato nel quartiere di Bab Tuma che ha preso di mira la cattedrale greco-ortodossa, una delle chiese più antiche della capitale siriana. Un attacco reso ancora più ignobile dal fatto che a essere colpiti sono stati quanti erano lì in coda per ricevere dei pacchi di assistenza distribuiti dai religiosi alle persone più in difficoltà. Il bilancio è stato di quattro morti e numerosi feriti.

A tutto questo si aggiunge il silenzio sulla sorte dei due vescovi di Aleppo – il siro-ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco-ortodosso Boulos al-Yazigi – da più di due mesi ormai nelle mani dei rapitori. Anche su di loro si era diffuso l'allarme nei giorni scorsi per via di un video in cui pareva si vedesse la decapitazione di uno dei due presuli. Ma anche in quel caso si è poi scoperto che si trattava di un filmato legato a un assassinio precedente.
Tutto questo dà il clima della situazione che si respira in Siria. Con i cristiani di Aleppo costretti a fuggire anche da quelle montagne dove avevano trovato rifugio dopo aver abbandonato la loro città. Con conventi e chiese storiche che vengono assaltati. Con video di persone sgozzate che vengono fatti circolare per aumentare ancora di più la paura. Il tutto mentre sul campo l'esercito di Bashar al Assad – fiancheggiato dai miliziani libanesi di Hezbollah e dagli iraniani – recupera posizioni nell'asse strategico che congiunge Damasco a Beirut. Con lo scenario sempre più dietro l'angolo di una Siria spaccata in due: la parte costiera con le città in mano alle forze lealiste, quella più occidentale come roccaforte dei ribelli. Ieri persino i russi – grandi alleati di Assad - hanno deciso di evacuare il personale militare da Tartus, la loro grande base navale sul Mediterraneo.

In un contesto di questo genere si capisce perché i cristiani della Siria vedano come un incubo l'invio di nuove armi ai ribelli, opzione per la quale premono oggi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (oltre ovviamente ai Paesi del Golfo, che in questi due anni non hanno mai smesso questo genere di invii). Hanno fin troppo chiaro chi sarebbero i primi contro cui verrebbero rivolte.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-siria-spaccatai-cristiani-pagano-6771.htm


L’editoriale di Marc Fromager( direttore di 'Aiuto alla Chiesa che soffre'- edizione francese): 

« Syrie ça suffit ! »

AED - Le 24 juin 2013


Depuis deux ans, la Syrie est exposée à la vindicte internationale et nous sommes priés d’assister silencieusement à l’anéantissement d’un des plus anciens pays au monde. Le dossier étant complexe et l’unanimité imposée, il est vrai que les voix discordantes étaient forcément mal vues. Or aujourd’hui, avec la décision américaine d’armer les rebelles et le suivisme européen et notamment français en la matière, le temps est venu de mettre fin à cette mascarade.
Au nom de la population syrienne, toutes confessions confondues, cette opération de destruction doit s’arrêter. Oui, ça suffit !


Certes, le dossier est complexe, le régime est autoritaire, mais depuis quand cela autorise-t-il la communauté internationale à décider de la destruction d’un pays ? La Syrie est-elle la seule dictature de la région ? Ne devrait-on pas également s’en prendre à l’Arabie Saoudite et au Qatar pour ne citer que ceux-là ? Et en quoi la pulvérisation du pays peut-elle le rendre plus épanoui ?
Il y a deux ans, la Syrie avait un taux de croissance économique de plus de 8 % et c’était, hormis le Liban, le pays le moins contraignant du Moyen-Orient pour les chrétiens. Aujourd’hui, avec plus de 90 000 morts et des centaines de milliers de réfugiés à l’intérieur et à l’extérieur du pays, l’évidente amélioration du sort de la population syrienne saute aux yeux, un peu comme l’ineffable service que nous avons rendu à la population irakienne depuis 10 ans…

Beaucoup de pays ont un intérêt dans la dislocation de la Syrie, à commencer par les Américains – pour des raisons énergétiques (contrôle de la production et/ou du transit du pétrole et du gaz et aussi manœuvre hostile contre les Russes) – ou les Qataris (lutte anti-chiite et compétition pour la primauté sunnite), mais la France ?
La politique étrangère française sur le dossier syrien est difficilement compréhensible. Quels intérêts y poursuivons-nous ? Ou est-ce simplement pour faire plaisir à nos parrains américain et qatari ? Là encore, il faut croire que la France a définitivement abandonné toute idée de souveraineté. Pourtant, la France, de par ses liens historiques avec la Syrie et les chrétiens d’Orient, avait une double responsabilité et donc des devoirs particuliers sur ce dossier.


Comment imaginer qu’on puisse armer les rebelles alors que tout le monde connaît la porosité de la rébellion syrienne avec les milieux islamistes liés à Al Qaïda ? Qui pourra expliquer l’absurdité qu’il y a à armer en Syrie ceux que la France combat au Mali ? Et après la Syrie, comment ne pas déjà entrevoir la dislocation du Liban ? Là aussi, est-ce la disparition des chrétiens que l’on cherche?

Quid de la population syrienne ? Cela semble le dernier souci de nos stratèges. Aujourd’hui, du point de vue de l’ensemble de la population syrienne et à fortiori des chrétiens syriens, ce chaos instauré, alimenté et financé en grande partie depuis l’étranger relève purement et simplement du crime. Il est temps que cela s’arrête et qu’une solution politique soit trouvée au plus vite, pour épargner la population civile plongée au fond de l’enfer. Oui, vraiment, cela suffit !

Marc Fromager
http://www.aed-france.org/actualite/leditorial-de-marc-fromager-syrie-ca-suffit/

venerdì 29 marzo 2013

La Via Crucis della Siria


Dalle Meditazioni dei giovani libanesi per la Via Crucis 2013 al Colosseo



«Come è triste vedere questa terra benedetta soffrire nei suoi figli che si sbranano tra loro con accanimento, e muoiono!» (Esort. ap. Ecclesia in Medio Oriente, 8). Sembra che nulla possa sopprimere il male, il terrorismo, l’omicidio e l’odio. «Dinanzi alla croce sulla quale tuo figlio stese le sue mani immacolate per la nostra salvezza, o Vergine, noi ci prostriamo in questo giorno: concedici la pace» (Liturgia bizantina).


Preghiamo per le vittime delle guerre e della violenza che devastano, in questo nostro tempo, vari Paesi del Medio Oriente, come pure altre parti del mondo. 

Preghiamo perché gli sfollati e i migranti forzati possano tornare al più presto nelle loro case e nelle loro terre. 

Fa’, Signore, che il sangue delle vittime innocenti sia il seme di un nuovo Oriente più fraterno, più pacifico e più giusto, e che questo Oriente recuperi lo splendore della sua vocazione di culla di civiltà e di valori spirituali ed umani.

Stella dell’Oriente, indicaci la venuta dell’Alba! Amen.

(XIII Stazione)


Il Calvario del popolo siriano

di Giorgio Bernardelli | 29 marzo 2013


Quando questa sera al Colosseo risuoneranno le meditazioni della Via Crucis del Papa scritte da un gruppo di giovani maroniti guidati dal patriarca Bechara Rai, il nostro pensiero non potrà che andare a un angolo ben preciso della Terra Santa: alla Siria, che vive un'altra Pasqua ferita dalla guerra. Terra Santa anche Damasco, Aleppo, Homs e tutte le altre città della Siria, culla del cristianesimo dei primi secoli: è bene ricordarcelo, per non fermarci al folklore nel ricordo in queste ore dei luoghi dove si è compiuto il grande mistero che torniamo a celebrare.
È la via di Damasco il luogo dell'ultima apparizione del Risorto: quella a Paolo. E allora dobbiamo assolutamente far incrociare questa Pasqua anche con le notizie che continuano ad arrivare dalle comunità cristiane eredi di quell'incontro.

Proprio ieri il quotidiano cattolico francese La Croix pubblicava una nuova lettera dei religiosi maristi di Aleppo. Un nuovo racconto del Calvario che questa città così importante per la storia del cristianesimo siriaco da ormai otto mesi sta vivendo. Ma anche una nuova denuncia delle troppe ipocrisie che circondano questa guerra; ad esempio quella di chi parla apertamente di rifornire gli oppositori di Assad di nuove «armi difensive non letali», come «se davvero strumenti del genere potessero esistere», annotano i religiosi. Anche in questo contesto i maristi cercano di spendersi per le migliaia di sfollati, che si trovano a vivere sotto il tiro dei cecchini o dei mortai. Li ospitano nelle loro tre scuole del quartiere di Sheikh Maksoud.

Ma è una solidarietà che deve fare comunque fare i conti con la Croce. Come è successo proprio questa settimana anche alla comunità maronita di Damasco. È stato lo stesso arcivescovo Samir Nassar ad annunciare l'altro giorno la morte di Camil, un seminarista di 35 anni che presto sarebbe diventato un diacono permanente. È successo proprio in questo martedì della Settimana Santa: stava andando da una famiglia rimasta isolata, durante il giro settimanale per la distribuzione del cibo ai poveri. Un colpo di mortaio lo ha portato via. «È una roulette russa che si prende vite innocenti – ha scritto l'arcivescovo Nassar – Camil è rimpianto da tutti... è stato così vicino a tutti». È morto «durante la Settimana Santa con il Cristo Crocifisso per servire e lodare per sempre il Salvatore Risorto e implorare la pace per il suo Paese torturato».

Quello dei propri fratelli in Siria è un dramma che anche i cristiani di Gerusalemme hanno ben presente. «Il nostro cuore sanguina - ha detto senza giocare troppo con le parole il patriarca Fouad Twal, presiedendo ieri al Santo Sepolcro la Messa in Coena Domini - vedendo la Siria affondare sempre più in una violenza che non ha più nome, se non quello della follia umana».
«Faccio appello a voi, cristiani di Terra Santa e pellegrini – ha aggiunto ancora Twal -, perché nelle vostre comunità e nelle vostre famiglie possiate diventare veri adoratori, che frequentano abitualmente l’Eucaristia, per avere la forza di costruire una società giusta, una pace durevole. Una testimonianza è già la meravigliosa opera di carità sostenuta dalle comunità cristiane, dalle parrocchie e dalla Caritas in Giordania per aiutare i profughi siriani in difficoltà».
Un segno concreto di quella Risurrezione che i cristiani della Siria attendono. «Continuiamo a credere nella speranza cristiana – scrivono i maristi di Aleppo -, senza la quale la fede non è altro che una parola vuota e la carità non è che un'elemosina». È la Pasqua difficile dei cristiani della Siria. Quella che ci ricorda che anche il Risorto porta intatti sulla sua carne i segni dei chiodi.
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Immagine: il Volto Santo di Manoppello (sovrapponibile al volto della Sindone?)