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lunedì 7 maggio 2018

mons Abou Khazen: «..e sono assolutamente contro i corridoi umanitari che non sono altro che un invito a lasciare il Paese».

Tre vescovi che non si arrendono

di Michele Zanzucchi

«Il simbolo della guerra attuale sono i 15 km del suq di Aleppo che sono stati distrutti: erano Patrimonio mondiale dell’Unesco. Sono stati distrutti per il disegno di spartizione della Siria, alla caccia del petrolio e del gas del nostro sottosuolo. Che altro scopo può avere la presenza, ad esempio, di 2 mila soldati statunitensi? Difendere i curdi? Li hanno abbandonati, si contano ormai 3.600 morti. È stata operata una distruzione sistematica delle infrastrutture del Paese, in un’offensiva i bombardieri Usa hanno distrutto i 32 ponti sull’Eufrate ed è stata danneggiata la diga che trattiene un invaso di 85 km: l’irrigamento ormai è un ricordo nella regione. 23 gruppi etnici e religiosi erano un bel mosaico, chissà in futuro. Con l’arrivo dei russi qualcosa s’è mosso, e ormai in 5 mila villaggi c’è stata resa delle armi e un inizio di riconciliazione. Ora bisogna riaprire le scuole».   Mons. Georges Abou Khazen, vicario apostolico dei latini, francescano, entra in materia molto decisamente. Come tutti (o quasi) i cristiani rimasti in Siria sceglie la continuità dello Stato siriano: «C’è una proposta di nuova costituzione laica: per la Siria sarebbe un passo in avanti nella cittadinanza, perché la vecchia costituzione verrebbe epurata da alcune tracce di shari’a. Anche il muftì di Aleppo la accetterebbe. E verrebbe introdotta anche la possibilità di cambiare religione».
Racconta di un progetto in comune col muftì: «Vogliamo occuparci dei bambini abbandonati di Aleppo, spesso nati per le relazioni estemporanee di soldati o ribelli con donne del popolo, senza che poi vi sia stato riconoscimento alcuno dei nuovi nati. Si chiama “Un nome e un avvenire”. Abbiamo trovato due centri, uno già è in funzione, l’altro aprirà tra pochi giorni: vogliamo dare un nome a questi bimbi e un supporto scolastico adeguato, cercando pure di realizzare eventuali “ricongiungimenti familiari”. Non sarà un centro per far dormire i bambini, ma un centro per risolvere alla radice i loro problemi. Nell’Islam non c’è adozione, ma qualcosa si può egualmente fare, si può accogliere in famiglia un bambino dandogli il nome, ma dichiarando pubblicamente che quel piccolo non è figlio naturale della coppia. A 18 anni il ragazzo partirà di casa».
Cosa fare per i giovani siriani che se ne vanno? «Abbiamo già fatto molto, ma quando non c’è più cibo, né sicurezza, la battaglia è difficile. La guerra ormai dura da 7-8 anni, i giovani si sono trovati a combattere contro loro coetanei che magari erano loro amici, e poi la scia di morti e feriti è stata senza fine, e così i mutilati che non trovano ancora protesi, mentre le famiglie si sono smembrate, gli anziani sono stati abbandonati a loro stessi e hanno dovuto bruciare persino le loro scarpe per scaldarsi d’inverno! Solo cessando la guerra i giovani torneranno. Ci interroghiamo se ora è giusto aiutare i profughi all’estero: credo che si debba aiutare la gente a restare, solo a restare. In questo senso sono assolutamente contro i corridoi umanitari che non sono altro che un invito a lasciare il Paese».

Mons. Audo
È invece gesuita e caldeo, mons. Antoine Audo, una delle voci più ascoltate in Occidente della Siria cristiana. Commenta l’ultimo raid americano-franco-britannico: «È stato un momento molto triste, mi dice, ma nel contempo è chiaro ormai che l’esercito siriano, col supporto russo, sta vincendo la guerra. È stato in qualche modo un atto di frustrazione degli sconfitti. I leader occidentali vogliono umiliare il presidente Assad, ma con lui dovranno trattare. E sullo sfondo ci sono le grandi questioni del petrolio, del commercio delle armi, della lotta tra sciiti e sunniti, della presenza di Israele. La Chiesa cattolica deve dire la verità e portare a un dialogo vero tra sunniti e sciiti qui in Siria».
Passiamo a parlare dei bimbi di strada, anche con mons. Audo: «Spesso hanno traumi sessuali, sono stati violentati, non sanno cosa voglia dire avere una madre. È una novità per la Siria, un Paese ben organizzato e a suo modo ricco. Ma non tutti i bimbi sono così. Sono rimasto stupito dalla forza dei bambini di Aleppo Est che hanno una straordinaria capacità di adattamento, di sopravvivenza, che gli europei nemmeno sospettano che esista. Anche gli anziani hanno maturato una loro forza di resistenza: lo vedo in alcuni centri che abbiamo aperto per loro. Sono soprattutto musulmani. Qualcuno arriva ad accusarmi di aiutare i musulmani invece dei cristiani: ne sono orgoglioso, anche se non dimentico i fedeli delle nostre Chiese cristiane». Continua sulla questione musulmana: «I musulmani hanno scoperto in questa guerra un po’ meglio le qualità dei cristiani, soprattutto per le attività umanitarie che abbiamo organizzato. Lo sguardo è rinnovato. Ma i cristiani hanno invece perso la fiducia nei musulmani, a causa del fanatismo di gruppi armati, soprattutto pagati e ispirati dall’estero. Qui ad Aleppo tanti cristiani usano parole aggressive nei confronti dei musulmani, ma non è giusto».
La Chiesa si è trasformata in una Ong? «No. Non è il nostro scopo quello di fare solo opere di solidarietà. Bisogna resistere spiritualmente e intellettualmente, evitando lo scadimento delle qualità della comunità cristiana in Siria, come in Iraq». La sfida? «Mantenere la speranza. Rileggo in questo periodo von Balthasar e altri teologi: quello che non avevo capito nelle loro riflessioni ora mi sembra di capirlo. La guerra porta anche all’intelligenza della fede. E con questa intelligenza dobbiamo ricostruire le basi di un Paese prospero come la Siria».
Cosa sarà la Siria tra 5 anni? «Bisognerà vedere se anche il regime Baas saprà riconoscere i propri sbagli, le proprie ingiustizie, nella ricerca di un dovere della verità. Con la violenza non si arriverà a nessun cambiamento vero. La Chiesa ha il dovere di lavorare per il cambiamento, anche se siamo deboli. Anche la nostra influenza nella politica e nell’esercito è molto diminuita in questa guerra, anche se ci sono cristiani validissimi, come cinque ministri. Ma speriamo, sempre».
Jean-Clement Jeanbart

Ci riceve in un episcopio provvisorio, un semplice appartamento, perché la sua cattedrale è stata distrutta. L’arcivescovo greco-cattolico di Aleppomons. Jean-Clement Jeanbart, ha un carattere di ferro: «Questa è una terra santa – esordisce – che va preservata assolutamente, curata e sostenuta. La Siria ha dato 7 papi a Roma, il Vaticano deve riconoscenza a questa Chiesa. Non bisogna in alcun modo favorire la diaspora, bisogna incoraggiare tutti i cristiani a rimanere da queste parti, anche pagando il loro ritorno, sostenendoli con nuovo lavoro… 40 persone sono tornate negli ultimi mesi nella nostra comunità. Il papa deve dire chiaro e forte non solo: “Cristiani rimanete in Siria”, ma anche: “Cristiani tornate in Siria”. Anche perché le Chiese d’Oriente possono aiutare le loro consorelle d’Occidente a ritrovare i valori fondanti del cristianesimo».
Il presente è in chiaroscuro: «Per Pasqua ho celebrato messe per 4 mila persone. Non poche. Ora bisogna riaprire scuole, istituzioni e chiese danneggiate o distrutte, perché solo così il Paese ritroverà un suo ruolo nella comunità internazionale. Ma per far questo dobbiamo mantenere la laicità del Paese, e così sopravvivremo. Questo influenzerà positivamente anche l’Islam, perché senza libertà religiosa non si potrà sopravvivere da queste parti. Non bastano i soldi, serve libertà».

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