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domenica 13 aprile 2014

Primavere arabe, teocrazia e democrazia, laicità e libertà...: grandissima intervista al Patriarca maronita Bechara Raï. Appello per il Libano

I Cristiani d'Oriente non sono "una minoranza", siamo cittadini originari in una terra che è pienamente la nostra.


Vi invitiamo a leggere per intero l'ampia, ricchissima intervista (in francese) di Isabelle Dillmann
  della 'Revue des Deux Mondes' al Patriarca libanese - a questo link : http://www.oeuvre-orient.fr/2014/04/04/entretien-sur-les-chretiens-dorient/

  Traduciamo e pubblichiamo solamente alcuni dei passaggi inerenti la situazione siriana.



.....
Ecco perché abbiamo bisogno di stabilità. Non si può parlare di progetto di sopravvivenza quando la guerra distrugge tutto. "Primum vivere deinde philosophari." Dobbiamo prima vivere e poi filosofare. La sfida è di rimanere, trovare modi per vivere in solidarietà, per mantenere sul posto una popolazione moderata che  spesso non ha scelta tra l'esilio o scivolare nel fondamentalismo. Questo è ciò che minaccia la pace nel mondo.

Revue des Deux Mondes - Quale paese, quali governi mette in causa?
Bechara Boutros Rai:  Io ho detto - e io sono responsabile delle mie parole - che alcuni paesi dell' Occidente e dell'Oriente, compresi alcuni paesi arabi e potenze regionali che non mi permetterò di nominare, supportano con armi, denaro e sostegno politico dei gruppi ribelli e milizie islamiste venute da tutto il mondo. Alcuni paesi pagano questi mercenari stranieri, sia dal Maghreb, dall'Azerbaigian e l'Afghanistan. Si trovano combattenti ceceni, libici, yemeniti o europei  radicalizzati per distruggere, terrorizzare e uccidere. Possiamo ancora parlare di guerra civile in Siria con tante interferenze internazionali?
Un ambasciatore di uno stato "pro-opposizione", ha ammesso davanti a me che "purtroppo" alcuni stati occidentali, compreso il suo, sostengono e finanziano questi gruppi fondamentalisti in Siria. Si tratta di una ingerenza esterna che fomenta la guerra a tutti i costi, prendendo il pretesto di instaurare la democrazia! Se delle riforme sono indispensabili  in Siria come in altri paesi arabi, queste non si possono fare dall'esterno o col terrore. Noi non siamo stolti. Non si tratta in questo caso nè di volontà democratica nè di sostegno alle riforme sociali e politiche di cui il mondo arabo avrebbe grande bisogno, ma di interessi finanziari ed economici con un commercio di armi appetitoso e di mire geopolitiche sulla regione . La Siria è diventata il teatro di un conflitto armato al quale prendono parte degli stati esteri per il proprio interesse. Non abbiamo bisogno di questo. Permettetemi di essere chiaro.

Revue des Deux Mondes - All'inizio del conflitto in Siria, nel settembre 2011, voi avevate optato per una posizione di mezzo, siccome i maroniti sono divisi in due fazioni - pro-e anti-siriane. Voi invitavate alle riforme attraverso il dialogo, suggerendo di "dare il tempo al presidente siriano" ...
Bechara Boutros Rai: Ciò che mi preoccupa non è la divisione dei cristiani, è la divisione dei musulmani dei due rami opposti dell'Islam, sunniti e sciiti, e le sue ripercussioni regionali e internazionali. La grande domanda è: "Come riconciliarli e tagliare corto questo aumento fondamentalista?".  I maroniti sono divisi in due campi:. Pro-Assad e anti-Assad. Da un lato, i sunnito-cristiani che vogliono un cambio di regime in Siria, e dall'altro i sciito-cristiani che ritengono che l'asse Teheran-Damasco-Hezbollah fornisce maggiori garanzie di sopravvivenza ai  cristiani orientali che non un'alleanza con l'Occidente. Ma su tutti gli affari nazionali, i cristiani sono d'accordo tra di loro.

Revue des Deux Mondes - Siete stato frainteso o voi sostenete il regime di Bashar al-Assad?
Bechara Boutros Rai:  No, certo che non supporto il regime di Bashar al-Assad. Questa non è la funzione di un patriarca, sostenere questo o quel regime, contrariamente da quanto immaginato da chi costruisce questo. Io sono contro la guerra, contro la violenza, contro la tirannia e dittatura. Ma mi rifiuto di passare di male in peggio. Un capo di Stato occidentale mi ha detto rispetto a questo: "Non bisogna sacrificare la democrazia in nome della stabilità."
Voglio approfittare di questa conversazione per cercare di illuminare l'Occidente su ciò che non capisce dell'Oriente. Lei mi ha posto questa domanda come se fosse cosa ovvia. Ma l'Occidente non riesce a capire nè ad ammettere che i cristiani hanno sempre rispettato le autorità locali in carica. Paradossalmente, è finora la migliore garanzia di sopravvivenza.

Revue des Deux Mondes - Il mio amico lo storico Samir Kassir, assassinato nel giugno 2005, ha parlato di un doppio sentimento di persecuzione e di odio di sé che hanno gli arabi. Egli credeva anche che la democrazia nel mondo arabo sarebbe passata dalla "primavera araba" a Damasco. Cosa ne pensa lei delle rivoluzioni arabe?
Bechara Boutros Rai:  Abbiamo accolto con favore le proteste popolari della "Primavera araba" in Tunisia, Egitto, Siria. Ma cosa è successo tutto ad un tratto? Come un gioco di prestigio "magico", o meglio tragico, questi eventi popolari sono scomparsi. Movimenti fondamentalisti hanno preso il sopravvento e si è verificata la guerra civile. Questa è la situazione in Egitto e in Siria oggi, per non parlare della Libia!
Questi giovani, qualunque sia la loro religione, vogliono la pace e vogliono riforme eque e attese. Hanno avuto il coraggio di scendere in piazza e non vogliono consegnarsi consenzienti nelle mani retrograde dei fondamentalisti. Complimenti alla pressione della società civile egiziana che dice no all'instaurazione di una società islamica!
La "primavera araba" è ben altro da questa diversione grossolana  di una democrazia-trappola che ha cercato di stornare ciò che era acquisito come in Tunisia. Stiamo assistendo allo stesso fenomeno in Siria. Che i mass media trasmettano le bugie non significa che si possa nascondere la verità. Ciò che si auspica è una rivoluzione dell'uomo e della stima che egli deve avere per se stesso. E mi rivolgo a quelli dell' ombra, a quelli che provocano terrore collettivo, e sostengono  gruppi  estremisti per destabilizzare un po' di più il mondo arabo su tale scala snaturando le speranze della gente.

Revue des Deux Mondes - Lei crede, come Walid Jumblatt il leader druso, che il mondo arabo sta morendo e affonderà?
Bechara Boutros Rai:  No, questa non è la fine del mondo arabo o la morte di un popolo. Questo è una fortissima crisi storica della stessa portata della fine dell'impero ottomano e della divisione della regione che ne seguì  più di un secolo fa. Abbiamo bisogno di una riflessione unitaria all'interno. Io non sono un utopista, ma l'ultima parola non potrà mai essere la disperazione. Questa è una crisi molto grave che assomiglia a quella di un organismo vivente che cade gravemente malato. Fino a quando non è morto, egli può tornare in buona salute. Noi, cristiani e musulmani, ci siamo ammalati. Dobbiamo riprenderci.
Ricordate, nella sua esortazione alle nazioni, Papa Francesco ha chiesto al mondo di "rinunciare all'odio fratricida, alla menzogna, alla proliferazione e al commercio illegale di armi." Egli ha sollevato la questione di un'economia mafiosa.
Chiedo regolarmente, senza mai ricevere una risposta, agli ambasciatori dei paesi che sostengono i gruppi estremisti di rivedere la loro politica. Che dire del mercato delle armi? Per quale scopo così tanti soldi spesi, tanto supporto logistico per sostenere queste milizie? Tante città sistematicamente distrutte, tanta sofferenza, tanti rifugiati nel mondo ... Chi ha  interesse nel voler tornare al sogno del grande califfato internazionale? Ci ritroveremo questi "sponsor di guerra" che in seguito presenteranno la fattura per la ricostruzione? Ancora nessuna risposta. Non mi ricordo chi ha detto con una triste ironia che Dio ha creato il mondo, ma che l'economia lo gestisce.

http://www.oeuvre-orient.fr/2014/04/04/entretien-sur-les-chretiens-dorient/

Il card. Raï all'Onu: il fondamentalismo islamico, minaccia per la pace




dal sito Radio Vaticana

Il cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca d'Antiochia dei Maroniti, ha tenuto nella sede Onu di Ginevra, una conferenza sul tema dei cristiani, la pace e il futuro in Medio Oriente. 
Tre i punti toccati: la presenza dei cristiani nel mondo arabo, una ricchezza di tradizioni e iniziative sociali nei vari Paesi che ha promosso valori morali e umani, in una costante testimonianza di ricerca di convivialità tra le differenze. In secondo luogo la destabilizzazione attuale del Medio Oriente, dovuta ai tanti colpi di Stato, alle lotte ideologico-religiose, al trionfo di rivoluzioni come quella di Khomeini in Iran, alla deviazione fondamentalista che ha pressoché annullato i frutti iniziali della "primavera araba" e le ingerenze di Paesi occidentali che mantengono vivi i conflitti. Infine, il porporato si è soffermato sulle prospettive di futuro per la Siria, facendo suoi, da un lato, i richiami di Papa Francesco ad una soluzione politica, fatta di dialogo e di negoziazioni e, dall'altro, gli interventi di mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l'Ufficio Onu di Ginevra, che più volte ha ribadito analoghe vie di risoluzione del conflitto, nel rispetto reciproco, liberando fede e politica da strumentalizzazioni reciproche. 
Il milione e mezzo di rifugiati in Libano, vittime del conflitto siriano, non possono più attendere una soluzione al dramma che stanno vivendo. Il patriarca, al termine del suo intervento, ha ribadito che persistono numerosi elementi in comune e complementari tra cristiani e musulmani, vissuti da più di un millennio tra le due culture che costituiscono una base solida per il futuro. 
A margine della conferenza Gabriele Beltrami ha rivolto al cardinale Béchara Boutros Raï alcune domande a partire dalle parole di Papa Francesco all'udienza generale relative all’uccisione del padre gesuita Frans van der Lugt lunedì scorso in Siria.

R. - Ci rincresce molto l'assassinio del padre che conosciamo molto bene dal Libano. Penso che sia stato ammazzato da fondamentalisti i quali, perseguitano i cristiani dichiaratamente e anche i musulmani. Ogni fondamentalismo commette atrocità, violenza, terrorismo, morte, assassinio, lo fa a nome della religione, quindi danneggia la religione stessa. Certo questo non rappresenta l'Islam. L'Islam è un'altra cosa, ha i suoi valori. I moderati, che sono la maggioranza, dovrebbero condannare tutto ciò. Purtroppo non condannano apertamente e noi insistiamo affinché questa posizione sia presa chiaramente. Spesso non lo fanno perché hanno paura di essere perseguitati. Questo noi lo sappiamo e lo rispettiamo. Però voglio dire alla comunità internazionale e all'opinione pubblica che la maggioranza dei musulmani sono moderati. Mi dispiace che una scelta politica sta fomentando e promuovendo il fondamentalismo. Prendiamo il caso dell'Egitto: i Fratelli musulmani sono stati aiutati finanziariamente da grandi potenze per ottenere il potere. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che questa scelta politica vuole fomentare i conflitti dentro l'Islam stesso, ma anche vuole mostrare, per il bene di qualcuno, che è impossibile la convivenza tra gli uomini e, socialmente, tra le diverse civiltà. Bene, vogliamo salutare il popolo egiziano che ha potuto fare questa rivolta, la stessa cosa in Siria. Mi dispiace molto, perchè la gente voleva le riforme: erano delle manifestazioni giuste e vere. Sono state soppiantate da questi gruppi fondamentalisti. Sia Paesi dell'Oriente che Paesi dell'Occidente volevano sempre mandare armi ai ribelli: ma a chi andavano? Ai fondamentalisti, ai mercenari. Vuol dire che c'è una scelta politica latente che vuole destabilizzare le società. Bisogna non solo che i moderati musulmani denuncino apertamente, ma bisogna anche che la comunità internazionale si renda conto che non può continuare a promuovere e sostenere e consolidare e fortificare i gruppi fondamentalisti, perché questi non sono un pericolo solo per la regione, per i cristiani: sono un pericolo per la pace mondiale. Quando uscissero fuori questi gruppi fondamentalisti che non promuovono che il terrorismo, chi li potrà domare? Bisogna che la comunità internazionale prenda coscienza e che dia ascolto al Santo Padre Francesco.

D. - In una recente intervista ha messo chiaramente in discussione che si possa ancora parlare di guerra civile in Siria dopo le tante ingerenze internazionali che, secondo lei, alimentano solo le ostilità. La sua è una denuncia forte: che reazioni ha ottenuto fino ad oggi?

R. - Quelli che non vogliono la pace e non vogliono soluzioni politiche rifiutano questo discorso. E io l'ho sperimentato personalmente già all'inizio della guerra in Siria, perché sono cosciente e lo dico dichiaratamente, pubblicamente: quando io facevo appello ad una soluzione pacifica e politica in Siria, allora dicevano che sostenevo il regime. Poi mi sono consolato perché fin dalla sua elezione, Papa Francesco non ha cessato mai di richiamare alla soluzione politica. Chi non vuole la pace, non accetta il tuo discorso; chi vuole la guerra non accetta il discorso per la pace; chi vuole l'oppressione non accetta il discorso della giustizia; chi vuole inimicizie non accetta il discorso della fratellanza. Però questo non vuol dire che dobbiamo tacere: dobbiamo sempre dire la verità, richiamare alla giustizia, all'amore - perché siamo tutti uomini - e anche alla libertà. Questi sono i quattro pilastri della pace di Papa Giovanni XXIII: verità, giustizia, libertà e amore. Se questi pilastri non esistono, allora la pace non può esistere. Ecco la voce profetica della Chiesa.

D. - Sembra che in Medio Oriente la ricerca di pace stabile e di riforme eque attese da tempo si sia arrestata o quantomeno rallentata. Lei parla di "fortissima crisi storica della stessa portata della fine dell'Impero ottomano e della divisione della regione che ne seguì più di un secolo fa": quali le piste per una risoluzione?

R. - All'origine di tutto quello che sta avvenendo nel Medio Oriente, ci sono il conflitto israelo-palestinese e israelo-arabo. Sono due conflitti. Quello israelo-palestinese riguarda il territorio palestinese: gente cacciata dalla terra, la propria terra, che vive miseramente nei campi. Quello israelo-arabo riguarda Israele che occupa Paesi arabi - Libano, Siria, Palestina - e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza non vengono applicate. Bene: né i palestinesi hanno diritto di ritornare, né hanno diritto di formare il loro Stato, né l'esercito israeliano applica le risoluzioni per lasciare i territori occupati: vuol dire che non vogliono la pace. E da questo conflitto nascono, si alimentano, come da un fuoco, gli altri conflitti del Medio Oriente. Sono riusciti a creare il conflitto tra i musulmani, hanno cercato di farlo tra cristiani e musulmani, ovunque, specialmente in Libano, con la guerra del Libano: non sono riusciti perché la cultura libanese della convivialità ha prevalso. Sono riusciti a creare questo grande conflitto tra sunniti e sciiti, tra moderati e fondamentalisti e integralisti, il conflitto in Egitto tra moderati e fratelli musulmani che sono piuttosto integralisti. In Irak hanno acceso il conflitto sunniti-sciiti. Tutti i giorni si ammazzano a vicenda. In Siria la lotta non è tra siriani sunniti e sciiti, lì non ci sono sciiti: si tratta di una lotta di Paesi sunniti capeggiati dall'Arabia Saudita e Paesi sciiti capeggiati dall'Iran. Questi Stati fanno la guerra in Siria attraverso l'opposizione, da una parte, e attraverso i gruppi fondamentalisti e mercenari che vengono da diversi Paesi occidentali e orientali. Questa è la grande tragedia: se la comunità internazionale vuole veramente la pace nel Medio Oriente, deve cominciare a risolvere il conflitto israeliano-palestinese e israeliano-arabo.

D. - Il Libano ha accolto un milione e mezzo di profughi siriani, un terzo della popolazione libanese: qual è oggi la situazione e le prospettive per loro?

R. - Il Libano, differentemente da altri Paesi, non ha potuto chiudere le porte, non ha potuto mai dire basta, perché in Libano c'è una parola che dice: "Le mani che hanno conosciuto i chiodi, inchiodate dai chiodi, solo loro sanno toccare le ferite". Noi abbiamo sperimentato e noi sempre abbiamo detto, io ed altri: "Fossimo noi al loro posto! Fossero le nostre famiglie!". Quindi noi non possiamo chiudere la porta alla gente innocente. Questo non vuol dire che il Libano deve assumere da solo questo peso. Non si tratta solo di un grande peso economico-sociale - perché non hanno nulla per vivere, per vestirsi, per mangiare, per le scuole – ma anche niente sicurezza, perché entrano le armi. A lungo andare questo minaccia l'identità del Libano, la fisionomia sociale e la cultura libanesi e minaccia specialmente la sicurezza del Libano perché queste persone verranno strumentalizzate politicamente: è gente oppressa, gente ferita quindi può vendersi a tutte le correnti. Una volta il Beato Giovanni Paolo II disse all'Onu che non basta denunciare i fondamentalisti e integralisti, bisogna vedere perché esistono, dove stanno le cause perché se c'è oppressione e ingiustizia nel mondo ecco che nascono questi gruppi fondamentalisti. Bisogna aiutare i profughi, certo, ma bisogna anche salvare il Libano. Noi chiediamo oggi che siano stabiliti campi all'interno della Siria, dove hanno molto spazio di sicurezza sotto il controllo dello Stato, e se per caso fosse difficile far passare gli aiuti attraverso le frontiere siriane - dato che il regime ha paura che entrino anche i mercenari - noi proponiamo che siano sulla "no man's land", cioè tra le due frontiere. Però adesso lo stesso problema è che vivono in mezzo ai villaggi: non abbiamo spazio in Libano. Il Libano ci sono montagne e valli e qualche pianura.
Quindi faccio un appello alla comunità internazionale: non bisogna sacrificare un Paese che è democratico, un Paese dove c'è la convivialità tra musulmani e cristiani organizzata dalla Costituzione. Volete democrazia? Nel Medio Oriente la porta il Libano! Volete diritti umani e fondamentali? Li porta il Libano! Volete le libertà, tutte le libertà pubbliche? E' il Libano a portarle! Volete convivialità di religioni, culture? E' il Libano ... ! Per favore, non sacrificate il Libano perché con senso umanitario riceve gente disperata. Spero che questo appello arrivi a delle coscienze e a delle buone volontà per non creare un altro problema ancora: noi non vogliamo rinunciare a questa nostra cultura cristiana, però, per favore, che il mondo aiuti questo Paese di cui ha detto Giovanni Paolo II che è un messaggio e modello per l'Oriente e l'Occidente, per dire che è possibile vivere insieme essendo diversi.

venerdì 11 aprile 2014

Siria, dove la pietà è un grido


Damasco, 10 aprile 2014


In questi giorni  sono caduti tanti colpi di mortaio sulle nostre zone cristiane, al-Kassa, Jaramana, Bab Touma…, abbiamo avuto tanti morti...

Oggi sono caduti a Jaramana piu di 45 colpi. E’ morto per una scheggia di mortaio pure un giovane uomo cristiano lasciando un bimbo.  Si chiama George Abo Samra.

Ero a pochi metri dal primo colpo, dove ero andato a fare la spesa. Mentre la gente era nascosta all'angolo dell'ospedale francese è caduto  il secondo colpo proprio dove la gente si era radunata, causando la morte di altre due persone .

Sono  corso subito alla scuola dove c’è mio figlio Micheal , il piccolo. Ho visto la paura negli occhi dei genitori. Ho visto bimbi con un volto sconvolto. Mio figlio mi ha detto che ha visto dalla finestra della classe una colonna di fumo. Insomma sono caduti in pochi minuti 4 colpi di mortaio nella zona di al-Kassa all'ora di punta. Colpiscono  mentre la gente sta facendo le spese e i genitori stanno andando a prendere i loro figli dalle scuole. Sono rientrato alle ore 13:15 e squilla il telefono e mi dicono che un colpo di mortaio ha colpito il palazzo dove ho la casa mia a Jaramana causando danni alla mia cisterna d'acqua e creando un buco nel soffitto della casa del mio vicino.

Ma quali sono le fonti di Avvenire???
Mentre ti scrivo queste parole ho sentito passare sopra di me due colpi di mortaio. Non so dove andranno a finire.  Ma la gente qua è proprio stanca di Jobar e Mileha da dove i ribelli lanciano contro di noi centinaia di colpi. 

Le scuole a Jaramana sono chiuse per più di una settimana, dopo che erano stati ammazzati 4 bambini, e  pure qua al Kassa le scuole domani chiudono che sono state aperte solamente due giorni (mercoledi e giovedi).

E la settimana scorsa hanno colpito pure sulla Patriarcale Melkita...

E allora diciamo:  Fino a quando l'esercito deve rimanere cosi di fronte a quello che fanno i gruppi armati di Jobar? Fino a quando dobbiamo resistere?

 Chiediamo all'esercito siriano di farli finire!

Samaan



Siria: Cristiani come animali



 MARCO TOSATTI

L’arcivescovo metropolitano della Chiesa apostolica ortodossa di  Antiochia Antonio Chedraui Tannous, ha affermato oggi che i cristiani di Siria sono ammazzati come se si trattasse di animali, nel momento in cui la comunità internazionale “si è tappata gli occhi e non vuole sentire”.  
L’arcivescovo parlava a José Gálvez Krüger direttore dell’Enciclopedia Cattolica, che fa parte del gruppo ACI. E denuncia che “senza dubbio la chiesa ortodossa antiochena vive un martirio interminabile: sequestro dei due arcivescovi e di alcuni sacerdoti, mattanza di sacerdoti e fedeli innocenti che non hanno niente a che edere con ciò che sta accadendo. Persecuzioni, distruzione di chiese, assassini. E la cosa peggiore e più barbare e che si uccidono i cristiani come si ammazzano gli animali, e tutto questo, nel nome di Dio”. E continua il prelato: “Mi chiedo: che cosa ha a vedere questo con la lotta per la democrazia o la libertà in Siria? I criminali, nella loro maggioranza, sono stranieri, che vengono dall’Arabia Saudita, dalla Turchia, dalla Cecenia e da altri Paesi”. Se i ribelli lottassero per la democrazia “sarebbero stati siriani, e non mercenari stranieri”.  
“Se l’occidente con in testa gli Stati Uniti e altri Paesi come l’Arabia Saudita e la Turchia non fossero intervenuti mandando denaro e armi, non saremmo al punto in cui siamo in Medio Oriente; e le Nazioni Unite, che ricevono ordini dagli Stati Uniti, non si interessano dei diritti umani e ancor meno di quelli dei cristiani in Medio Oriente”. Obama, secondo il vescovo ha sviluppato una politica ancora più aggressiva e peggiore di quella di Bush nella zona.  

http://www.lastampa.it/Page/Id/2.0.589627549


Homs : 25 morti tutti civili e 107 feriti per un'autobomba in quartiere abitativo,
seguita da una seconda quando si era radunata la gente per i soccorsi...


Armeni siriani di Kessab deportati in territorio turco

Agenzia Fides 10/4/2014
Alcuni anziani di Kessab, la città nord-orientale siriana a maggioranza armena assalita nelle scorse settimane da milizie armate anti-Assad, sono stati trasferiti dagli stessi miliziani in territorio turco, senza essere stati informati prima della loro destinazione. É quanto emerge da fonti armene consultate dall'Agenzia Fides.
Nei giorni scorsi la stampa turca aveva dato risalto alla notizia che almeno 18 armeni fuggiti da Kessab dopo l'assalto dei ribelli avevano trovato asilo in alcuni villaggi turchi come Yayladagı e Vakif. La notizia era stata riportata con enfasi, mentre si avvicina il centenario del genocidio subito dagli armeni nella Turchia ottomana. Le indagini condotte da alcuni media armeni hanno rivelato dettagli eloquenti sul modo in cui è avvenuto il trasferimento degli armeni siriani in territorio turco. Secondo le testimonianze di alcune donne anziane accolte nel villaggio turco di Vakif, gli uomini armati che hanno assalito le loro case parlavano in turco e hanno scelto di trasferire in territorio turco i pochi anziani rimasti a Kessab dopo che la quasi totalità della popolazione armena della città era fuggita verso la zona costiera di Latakia, all'arrivo delle milizia anti-Assad. Il trasferimento forzoso in Turchia è avvenuto in condizioni proibitive per gli anziani armeni, che erano stati tenuti all'oscuro della reale destinazione. 



Nel 1915 si è consumato uno dei più efferati genocidi dello scorso secolo. In un impero ottomano ormai agonizzante e percorso da ventate di nazionalismo, di cui era interprete l'organizzazione conosciuta come “giovani turchi”, si scatenò la caccia agli esponenti della piccola, ma radicata minoranza armena. Gli Armeni sono cristiani, anzi furono una delle prime nazioni a diventare interamente cristiane, e per questo la loro vita non fu mai facile all'interno di un impero che innalzava la bandiera dell'Islam militante. Ma quello che avvenne nel 1915 superò per orrore ogni precedente persecuzione. Decine di migliaia di persone furono strappate dalle loro case e brutalmente massacrate sul posto o avviate, in lunghe colonne, verso le zone più inospitali dell'Anatolia dove vennero letteralmente lasciate morire di fame e di stenti. I villaggi armeni vennero distrutti e le chiese profanate e trasformate in moschee o locali pubblici. 
Molti Armeni fuggirono dalla Turchia per non essere vittime dei pogrom e trovarono rifugio e protezione nelle nazioni vicine tra cui Siria e Libano che, pur essendo formalmente parte dell'Impero Ottomano, non solo non si associarono ai massacri, ma anzi nascosero e protessero i fuggitivi. Fu così che in Siria e Libano nacquero grosse comunità armene e sopravvissero quelle più antiche che vi risiedevano già da molti secoli. Una di queste ultime vive (forse  meglio dire viveva fino al 21 marzo di quest'anno) nella piccola città di Kessab al confine tra Siria e Turchia ed a pochi chilometri dall'importante porto siriano di Latakia. Seimila persone, per oltre due terzi Armeni, che abitavano in sei piccole frazioni in una zona montuosa fino a pochi giorni fa risparmiata dalla guerra. IL 21 marzo però dal confine turco sono arrivate gli integralisti islamici dell'ISIL e del fronte Al Nusra che hanno prima bombardato e poi attaccato Kessab, costringendo l'intera popolazione a fuggire ed a cercare rifugio nella vicina Latakia. Fatto assolutamente nuovo, l'esercito turco, che presidia il confine a pochi chilometri da Kessab, non solo ha lasciato passare le bande armate, ma addirittura, secondo molti testimoni oculari, le ha appoggiate con l'artiglieria ed i blindati ed ha lanciato missili contro gli aerei siriani, uno dei quali è stato abbattuto. L'intenzione dei guerriglieri è sicuramente quella di minacciare Latakia per distogliere forze siriane dalla battaglia in corso nel Qalamoun. I Turchi invece sembrano cercare un casus belli per poter attaccare la Siria, come parrebbero confermare le intercettazioni dei discorsi tra esponenti del regime di Erdogan resi pubblici probabilmente da ambienti militari turchi ostili alla linea del premier. Non è sicuramente un caso per che, per dare il via a questa loro nuova linea, i Turchi abbiano scelto di attaccare un villaggio armeno, colpendo così oltre che la Siria, anche i loro tradizionali nemici. Probabilmente Erdogan contava sul fatto che la Russia -impegnata sul fronte ucraino- non si sarebbe esposta più di tanto in difesa dell'alleato siriano. Così ovviamente non è stato perchè immediatamente tre navi russe alla fonda nel porto di Tartous hanno fatto rotta verso quello di Latakia. Una presenza simbolica, ma sufficiente a far capire ad Ankara che la strada intrapresa avrebbe potuto portare a conseguenze pericolose. Vedremo gli sviluppi.

mercoledì 9 aprile 2014

Erdogan freme per attaccare la Siria

Foto da Repubblica , articolo http://www.repubblica.it/esteri/2014/04/09/news/hersh_non_fu_la_siria_a_usare_le_armi_chimiche-83106851





da Piccole Note, 9 aprile 2014
di Renato Piccolo

Pare che a Erdogan manchi solo un pretesto. Che il premier turco sia pronto a tutto pur di rovesciare il governo siriano di Bashar al Assad non è una novità. Negli ultimi tempi, però, sembra che i preparativi per un intervento militare della Turchia in Siria abbiano fatto un salto di qualità.

Il 30 marzo scorso, la sera stessa della sua impressionante vittoria nelle elezioni amministrative (col 44% dei consensi), Recep Tayyip Erdogan ha annunciato alla folla festante sotto la sede del suo partito che «oggi la Siria è in guerra contro di noi». Da Damasco, inutile dirlo, non è arrivata nessuna dichiarazione ufficiale di guerra. Al contrario, il governo di Assad non ha reagito all’abbattimento di un suo Mig da parte dell’aviazione turca. Era il 23 marzo, e secondo Ankara il caccia siriano aveva sconfinato di un chilometro all’interno dello spazio aereo turco. Una circostanza che Damasco nega categoricamente, forte anche del fatto che il jet è precipitato sul suolo siriano. Se c’è stato sconfinamento, ammettono anche gli osservatori turchi, non dev’essere durato più di qualche decina di secondi. Piuttosto è chiaro che Erdogan vuole tenere alta la tensione ai confini meridionali, fino a «mettere in piedi una crisi».


Un ruolo turco nell’attacco chimico di Damasco?
Questa strategia si sarebbe ormai consolidata da diversi mesi. Lo sostiene Seymour Hersh – tra le più autorevoli firme del giornalismo investigativo americano, dai tempi del Vietnam a oggi – in una lunga inchiesta apparsa il 4 aprile sulla London Review of Books. Grazie alle confidenze di un ex agente dei servizi di intelligence americani, Hersh è andato a scavare nella vicenda dell’attacco chimico dell’agosto 2013 a Ghouta, periferia di Damasco.

Secondo il giornalista, già nei giorni immediatamente successivi all’attentato l’intelligence britannica sarebbe entrata in possesso di un campione dell’agente nervino utilizzato a Ghouta: «Il campione non combaciava con le scorte note nell’arsenale chimico siriano». A partire da quella e da altre prove, spiega l’ex spia a Hersh, «ora sappiamo che l’attacco è stato un’operazione sotto copertura organizzata da quelli di Erdogan per spingere Obama oltre la sua “linea rossa”», cioè per spingerlo ad attaccare la Siria. «I vertici del nostro esercito sono stati informati dalla Dia (il servizio segreto militare) e da altre agenzie che il sarin è arrivato dallaTurchia, e che può esserci arrivato solo grazie al sostegno della Turchia».

Perché allora il governo americano non ha reso pubbliche queste informazioni? – chiede Hersh. «Da quando l’attacco alla Siria è stato annullato – risponde la fonte – la Casa Bianca non ha prodotto nessun documento sul coinvolgimento siriano nell’attacco col sarin. Ma visto che abbiamo dato la colpa ad Assad, ora non possiamo rimangiarci la parola e accusare Erdogan».


A caccia del casus belli
Sulla vicenda dell’attacco chimico a Damasco è stato scritto molto, a favore e contro la tesi della colpevolezza di Assad. Ma anche al di là dell’inchiesta di Hersh, ci sono prove in abbondanza sul fatto che il governo turco stia provando a legittimare un attacco alla Siria.

È una strategia che si è resa manifesta da almeno un anno. L’11 maggio 2013 due autobombe fecero 52 morti a Reyhanli, cittadina turca nella provincia dell’Hatay, al confine con la Siria. Erdogan annunciò di avere le prove che il mandante della strage era il governo siriano. Il 27 marzo scorso, però, l’ambasciatore turco all’Osce Tacan Ildem ha ammesso che dietroquell’attentato c’erano dei terroristi di al Qaeda, non il governo di Damasco.

Nel maggio del 2013 la Turchia non aveva ancora riconosciuto pubblicamente il pericolo per la stabilità regionale rappresentato da alcune delle forze anti-Assad. La situazione oggi è cambiata e anzi ad Ankara c’è chi pensa di giustificare un intervento militare proprio col pretesto del contenimento degli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (organizzazione nota con l’acronimo inglese Isis).

Lo stesso giorno in cui l’ambasciatore Ildem rievocava l’attentato di Reyhanli, su YouTube appariva la registrazione di una telefonata tra il premier Erdogan, Hakan Fidan, il potentissimo capo dei servizi segreti turchi (Mit), e Feridun Sinirlioglu, un sottosegretario al ministero degli esteri. L’autenticità del nastro non è stata messa in discussione dal governo, che al contrario, per evitarne la diffusione, ha bloccato per diverse ore l’accesso al sito.

Nel corso della telefonata Sinirlioglu spiega che «un’operazione contro l’Isis ha la legittimità internazionale. Diremo che è al Qaeda. Nessuno contesta lo schema su al Qaeda. E quando si tratta della tomba dello scià Solimano è una questione di difesa del territorio nazionale». La tomba cui fa riferimento il politico è un sacrario posto in territorio siriano, a una trentina di chilometri dalla frontiera, ma appartenente alla Turchia e difeso da una piccola pattuglia di soldati di Ankara: si tratta infatti della tomba di un avo del fondatore dell’impero ottomano.
Già alcune settimane fa il leader dell’opposizione turca, Kemal Kilicdaroglu, aveva accusato il governo di voler usare la tomba di Solimano come casus belli. La conferma arriva dalla voce di Hakan Fidan: «Se proprio ci deve essere una giustificazione (all’attacco) – dice il capo del Mit nella telefonata con Erdogan – mando quattro uomini dall’altro lato (del confine). Gli faccio sparare otto missili in un campo deserto. Non è un problema. La giustificazione può essere costruita».


Le resistenze
A guastare i piani di Fidan è arrivata la fuga di notizie a mezzo YouTube. E l’attacco è stato rinviato ancora, come era accaduto nel settembre del 2013, quando l’accordo tra l’amministrazione Usa e Vladimir Putin (e le preghiere della Chiesa) avevano fermato l’intervento occidentale contro Assad. In molti, in Turchia, hanno attribuito la diffusione della telefonata ai seguaci di Fetullah Gülen, il filosofo e finanziere già alleato di Erdogan, oggi suo principale oppositore. E il presidente della repubblica Abdullah Gül, considerato un alleato di Gülen, non ha nascosto le sue remore sul modo il cui il premier sta gestendo la vicenda siriana.


Ad agosto Erdogan punta a sostituire Gül alla presidenza della repubblica. Gül (che alcuni mesi fa aveva pubblicamente parlato della necessità di una pacificazione dell’area) potrebbe prendere il posto del primo ministro, ma solo dopo essersi fatto eleggere in parlamento (e potrebbero volerci alcuni mesi). Sarà una fase di transizione complicata, che Erdogan potrà gestire insieme a Gül o contro di lui. Anche da questo potrebbero dipendere le sorti della guerra in Siria.

http://www.piccolenote.it/18181/erdogan-freme-per-attaccare-la-siria


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Chiesta la libertà di informazione in Turchia

Il governo Erdogan ha oscurato tutti i principali social network, considerati veicoli di informazione contraria al potere

Pare che a Erdogan manchi solo un pretesto. Che il premier turco sia pronto a tutto pur di rovesciare il governo siriano di Bashar al Assad non è una novità. Negli ultimi tempi, però, sembra che i preparativi per un intervento militare della Turchia in Siria abbiano fatto un salto di qualità.
Il 30 marzo scorso, la sera stessa della sua impressionante vittoria nelle elezioni amministrative (col 44% dei consensi), Recep Tayyip Erdogan ha annunciato alla folla festante sotto la sede del suo partito che «oggi la Siria è in guerra contro di noi». Da Damasco, inutile dirlo, non è arrivata nessuna dichiarazione ufficiale di guerra. Al contrario, il governo di Assad non ha reagito all’abbattimento di un suo Mig da parte dell’aviazione turca. Era il 23 marzo, e secondo Ankara il caccia siriano aveva sconfinato di un chilometro all’interno dello spazio aereo turco. Una circostanza che Damasco nega categoricamente, forte anche del fatto che il jet è precipitato sul suolo siriano. Se c’è stato sconfinamento, ammettono anche gli osservatori turchi, non dev’essere durato più di qualche decina di secondi. Piuttosto è chiaro che Erdogan vuole tenere alta la tensione ai confini meridionali, fino a «mettere in piedi una crisi».

Un ruolo turco nell’attacco chimico di Damasco?
Questa strategia si sarebbe ormai consolidata da diversi mesi. Lo sostiene Seymour Hersh – tra le più autorevoli firme del giornalismo investigativo americano, dai tempi del Vietnam a oggi – in una lunga inchiesta apparsa il 4 aprile sulla London Review of Books. Grazie alle confidenze di un ex agente dei servizi di intelligence americani, Hersh è andato a scavare nella vicenda dell’attacco chimico dell’agosto 2013 a Ghouta, periferia di Damasco.
Secondo il giornalista, già nei giorni immediatamente successivi all’attentato l’intelligence britannica sarebbe entrata in possesso di un campione dell’agente nervino utilizzato a Ghouta: «Il campione non combaciava con le scorte note nell’arsenale chimico siriano». A partire da quella e da altre prove, spiega l’ex spia a Hersh, «ora sappiamo che l’attacco è stato un’operazione sotto copertura organizzata da quelli di Erdogan per spingere Obama oltre la sua “linea rossa”», cioè per spingerlo ad attaccare la Siria. «I vertici del nostro esercito sono stati informati dalla Dia (il servizio segreto militare) e da altre agenzie che il sarin è arrivato dalla Turchia, e che può esserci arrivato solo grazie al sostegno della Turchia».
Perché allora il governo americano non ha reso pubbliche queste informazioni? – chiede Hersh. «Da quando l’attacco alla Siria è stato annullato – risponde la fonte – la Casa Bianca non ha prodotto nessun documento sul coinvolgimento siriano nell’attacco col sarin. Ma visto che abbiamo dato la colpa ad Assad, ora non possiamo rimangiarci la parola e accusare Erdogan».

A caccia del casus belli
Sulla vicenda dell’attacco chimico a Damasco è stato scritto molto, a favore e contro la tesi della colpevolezza di Assad. Ma anche al di là dell’inchiesta di Hersh, ci sono prove in abbondanza sul fatto che il governo turco stia provando a legittimare un attacco alla Siria.
È una strategia che si è resa manifesta da almeno un anno. L’11 maggio 2013 due autobombe fecero 52 morti a Reyhanli, cittadina turca nella provincia dell’Hatay, al confine con la Siria. Erdogan annunciò di avere le prove che il mandante della strage era il governo siriano. Il 27 marzo scorso, però, l’ambasciatore turco all’Osce Tacan Ildem ha ammesso che dietro quell’attentato c’erano dei terroristi di al Qaeda, non il governo di Damasco.
Nel maggio del 2013 la Turchia non aveva ancora riconosciuto pubblicamente il pericolo per la stabilità regionale rappresentato da alcune delle forze anti-Assad. La situazione oggi è cambiata e anzi ad Ankara c’è chi pensa di giustificare un intervento militare proprio col pretesto del contenimento degli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (organizzazione nota con l’acronimo inglese Isis).
Lo stesso giorno in cui l’ambasciatore Ildem rievocava l’attentato di Reyhanli, su YouTube appariva la registrazione di una telefonata tra il premier Erdogan, Hakan Fidan, il potentissimo capo dei servizi segreti turchi (Mit), e Feridun Sinirlioglu, un sottosegretario al ministero degli esteri. L’autenticità del nastro non è stata messa in discussione dal governo, che al contrario, per evitarne la diffusione, ha bloccato per diverse ore l’accesso al sito.
Nel corso della telefonata Sinirlioglu spiega che «un’operazione contro l’Isis ha la legittimità internazionale. Diremo che è al Qaeda. Nessuno contesta lo schema su al Qaeda. E quando si tratta della tomba dello scià Solimano è una questione di difesa del territorio nazionale». La tomba cui fa riferimento il politico è un sacrario posto in territorio siriano, a una trentina di chilometri dalla frontiera, ma appartenente alla Turchia e difeso da una piccola pattuglia di soldati di Ankara: si tratta infatti della tomba di un avo del fondatore dell’impero ottomano.
Già alcune settimane fa il leader dell’opposizione turca, Kemal Kilicdaroglu, aveva accusato il governo di voler usare la tomba di Solimano come casus belli. La conferma arriva dalla voce di Hakan Fidan: «Se proprio ci deve essere una giustificazione (all’attacco) – dice il capo del Mit nella telefonata con Erdogan – mando quattro uomini dall’altro lato (del confine). Gli faccio sparare otto missili in un campo deserto. Non è un problema. La giustificazione può essere costruita».

Le resistenze
A guastare i piani di Fidan è arrivata la fuga di notizie a mezzo YouTube. E l’attacco è stato rinviato ancora, come era accaduto nel settembre del 2013, quando l’accordo tra l’amministrazione Usa e Vladimir Putin (e le preghiere della Chiesa) avevano fermato l’intervento occidentale contro Assad. In molti, in Turchia, hanno attribuito la diffusione della telefonata ai seguaci di Fetullah Gülen, il filosofo e finanziere già alleato di Erdogan, oggi suo principale oppositore. E il presidente della repubblica Abdullah Gül, considerato un alleato di Gülen, non ha nascosto le sue remore sul modo il cui il premier sta gestendo la vicenda siriana.
Ad agosto Erdogan punta a sostituire Gül alla presidenza della repubblica. Gül (che alcuni mesi fa aveva pubblicamente parlato della necessità di una pacificazione dell’area) potrebbe prendere il posto del primo ministro, ma solo dopo essersi fatto eleggere in parlamento (e potrebbero volerci alcuni mesi). Sarà una fase di transizione complicata, che Erdogan potrà gestire insieme a Gül o contro di lui. Anche da questo potrebbero dipendere le sorti della guerra in Siria.

Il dolore per il martirio di Padre Frans Van der Lught nelle parole del Papa e del Patriarca Laham

Oggi, 9 aprile, il Papa, al termine dell’udienza generale:


Lunedì scorso, ad Homs, in Siria, è stato assassinato il Rev.do P. Frans van der Lugt, un mio confratello gesuita olandese di 75 anni, arrivato in Siria circa 50 anni fa, che ha sempre fatto del bene a tutti, con gratuità e amore, e perciò era amato e stimato da cristiani e musulmani.
La sua brutale uccisione mi ha riempito di profondo dolore e mi ha fatto pensare ancora a tanta gente che soffre e muore in quel martoriato Paese, la mia amata Siria, già da troppo tempo preda di un sanguinoso conflitto, che continua a mietere morte e distruzione. Penso anche alle numerose persone rapite, cristiani e musulmani, siriani e di altri Paesi, tra le quali ci sono Vescovi e Sacerdoti. Chiediamo al Signore che possano presto tornare ai loro cari e alle loro famiglie e comunità.
Di cuore vi invito tutti ad unirvi alla mia preghiera per la pace in Siria e nella regione, e lancio un accorato appello ai responsabili siriani e alla comunità internazionale: per favore, tacciano le armi, si metta fine alla violenza! Non più guerra! Non più distruzione! Si rispetti il diritto umanitario, si abbia cura della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria e si giunga alla desiderata pace attraverso il dialogo e la riconciliazione. 
Alla nostra Madre, Maria Regina della pace, che ci dia questo dono per la Siria, preghiamo tutti insieme ...  Ave Maria ...


Comunicato del Patriarcato Melkita greco cattolico di condanna per il martirio di Padre Frans Van der Lught


Padre Francis riposa nel giardino della sua casa di Homs

Con cuore triste abbiamo appreso la notizia del martirio di nostro fratello Padre Frans Van der Lught. Era un padre per i poveri, misericordioso per i bisognosi sfollati e feriti, per i forestieri, e perfino per i criminali, partendo dalle sue convinzioni cristiane della fede.Questo è ciò in cui si è distinto dall'inizio della sanguinosa crisi siriana ed ecco che la mano del tradimento, del crimine e della barbarie lo elimina, consegnandogli la corona del martirio della fede, del suo amore, generosità e sacrificio.E ci chiediamo: fino a quando i paesi del mondo rifiuteranno di capire la realtà della situazione siriana, inneggiando alla democrazia, alle riforme e alla libertà e tanti altri slogan vuoti ed ingannevoli? fino a quando non si metterà il mondo, in una volontà e una voce sola, lavorando per fermare la guerra dichiarata sulla Siria, sul presidente, sul governo, sull'esercito, sulla popolazione, sulle istituzioni, conventi, chiese, moschee edifici religiosi cristiani e mussulmani, uomini, donne, bambini e anziani ...?A nome del patriarcato Melkita greco cattolico, essendo presidente del consiglio dei capi delle chiese cattoliche in Siria: condanniamo questo crimine barbaro, e porgiamo le nostre condoglianze ai Padri gesuiti in Siria e Libano, nella regione e in tutto il mondo, e al nostro Papa gesuita. Eleviamo le nostre preghiere per la pace dell'anima di questo prete martire, servo di Cristo, e dei figli di questa patria Siria e soprattutto dei figli della città ferita di Homs.E con le preghiere della Chiesa preghiamo: o Signore Cristo fa che l'anima del tuo servo nostro fratello Padre Frans riposi con i santi dove non c'è dolore, nè tristezza, nè lamento, ma una vita senza fine.Resti in pace 
Gregorios Lahham Patriarca dei Melkiti greco cattolici 
Damasco, 6 aprile:
Colpi di mortaio sul Patriarcato melchita.

lunedì 7 aprile 2014

R.I.P., padre Franz

Padre Francis assassinato da uomini armati all'interno 
del monastero gesuita in Homs



Padre Franz viveva nella zona di Homs controllata dai ribelli; gli era stata proposta 
l'evacuazione con gli altri civili, ma non aveva voluto lasciare il monastero gesuita, 
la piccola comunità di cristiani rimasti  e il patrimonio cristiano secolare da lui custoditi. 

http://www.papaboys.org/siria-assassinato-il-gesuita-van-der-lugt/




http://it.radiovaticana.va/news/2014/04/07/siria,_ucciso_padre_gesuita_a_homs._padre_lombardi:_dove_il_popolo/it1-788561

venerdì 4 aprile 2014

«1400 anni di islam non ci hanno potuto strappare dalle nostre terre e dalle nostre chiese, mentre oggi la politica occidentale ci ha disperso ai quattro angoli della terra.»

Le guerre in Iraq, Libia e Afghanistan hanno peggiorato la condizione dei popoli, in particolare le minoranze. Le politiche fallimentari promosse dall'Occidente. 
Cresce il fondamentalismo, la Primavera araba svuotata dagli estremismi. 
Il ruolo delle autorità musulmane nella tutela di diritti e libertà religiosa. 
La presenza dei cristiani in Medio oriente è fondamentale per i musulmani.



 Il Medio Oriente si sta svuotando dei cristiani. Ciò avviene a causa di fondamentalismi regionali, di impaccio delle autorità locali, di inerzia della comunità internazionale e dell'Occidente. La fuga dei cristiani causerà impoverimento sociale, economico e culturale alla regione e instabilità per il mondo intero. 
E' l'appello accorato che Mar Louis Raphael I Sako ha lanciato nei giorni scorsi in un seminario promosso dall'università cattolica di Lione, in Francia, sulla "Vocazione dei cristiani d'Oriente". Il Patriarca caldeo invita a "non considerare" i cristiani come una "minoranza, ma come cittadini a tutti gli effetti"
Nel suo lungo intervento Sua Beatitudine illustra la situazione generale dei cristiani in Medio oriente, sottolineando l'importanza della loro presenza, spiegando il ruolo delle autorità musulmane e delle Chiese orientali. Egli invita a esercitare pressioni sui governi perché siano riconosciuti e garantiti pari diritti, rilanciando ancora una volta la richiesta di fermare l'esodo dalle loro terre di origine. 
Ecco, di seguito, l'intervento integrale di Mar Sako (Corsivi e grassetti sono dell'originale. Traduzione a cura di AsiaNews).

Asia News,  03/04/2014 

di Mar Louis Raphael I Sako

I cambi di regime che hanno avuto luogo in diversi Paesi hanno aperto un abisso al loro interno; gli interventi in Afghanistan, in Iraq, in Libia non hanno affatto contribuito a risolvere il problema dei loro popoli ma, al contrario, hanno determinato situazioni caotiche e conflitti che non permettono affatto di immaginare un avvenire migliore, in particolare per i cristiani! Le divisioni confessionali divengono sempre più marcate e forti, soprattutto fra sciiti e sunniti. Diversi partiti politici di carattere settario si stanno organizzando e tutto viene a essere suddiviso in base alla confessione religiosa. Credo che in Iraq il cammino finirà con una divisione del Paese, perché il terreno è già preparato tanto dal punto di vista psicologico, quanto sotto il profilo geografico. La pulizia [etnico-religiosa] dei quartieri e delle città tra sunniti e sciiti va proprio in questa direzione.

1 - Situazione generale dei cristiani in Medio oriente
Fino a 50 anni fa i cristiani del Medio oriente rappresentavano il 20% del totale della popolazione. Oggi si parla di un misero 3%. Quando le potenze coloniali hanno dato vita a queste nazioni, non lo hanno fatto partendo da basi storiche, geografiche o etniche: in questo modo non vi è stata né omogeneità, né un vero progetto di cittadinanza in cui tutti possono essere integrati. L'accordo Sykes-Picot del 1916 non ha tenuto in considerazione l'emergenza delle frontiere di Paesi come il Libano, la Giordania, la Siria, l'Iraq e altri ancora. Le decisioni sono state prese in funzione degli interessi delle grandi potenze, e questo ha aperto la via a conflitti confessionali, religiosi, etnici con i quali abbiamo a che fare ancora oggi. Non vi è pace tra israeliani e palestinesi; il Libano è stato frantumato e resta sempre sotto la minaccia della guerra civile; la Siria è sul punto di crollare, con nove milioni di persone che hanno abbandonato le loro abitazioni, l'Iraq è devastato, l'Egitto esploso. Milioni di cristiani d'Oriente, rifugiati, fuggono da una regione all'altra.

Oggi si parla sempre più di un piano che intende dar vita a un nuovo Medio oriente. Per noi è fonte di preoccupazione e di paura. 1400 anni di islam non ci hanno potuto strappare dalle nostre terre e dalle nostre chiese, mentre oggi la politica occidentale ci ha disperso ai quattro angoli della terra.

I cristiani sono sempre più vittime: il loro esodo dai Paesi del Medio oriente è inarrestabile. Attualmente, secondo le stime sono - in tutto - tra i 10 e i 12 milioni su una popolazione complessiva di 550 milioni di abitanti, pari al 3% circa. La pressione esercitata contro i cristiani e le minoranze religiose in Medio oriente è aumentata nel corso degli ultimi decenni, alle volte in modo sommesso e, in altri momenti, in modo aperto, pubblico. Le discriminazioni, ingiustizie, sequestri, emarginazioni, intimidazioni in molte parti del mondo arabo-islamico danno loro l'impressione di essere destinati all'estinzione.

Tutto questo deriva dall'instabilità della maggior parte di questi Paesi e dalla crescita dell'islamismo radicale, sotto il manto di ciò che è conosciuto con il nome di "islam politico"; quanto alla "Primavera araba", essa è stata esautorata dagli estremismi. Il progetto "politico" dell'islam è di far rinascere il califfato tanto a Damasco quanto in Iraq! Il loro modo di pensare e di fare guerra è un ritorno al Medio Evo! I cristiani sono ammessi a restarvi come cittadini di seconda classe!

L'invasione americana dell'Iraq ha portato alla morte di un vescovo [mons. Paulos Faraj Rahho, morto nelle mani dei sequestratori nel marzo 2008, ndr], sei sacerdoti assieme a più di mille fedeli, 66 chiese sotto attacco e 200 casi di rapimento. Circa la metà dei cristiani irakeni, che in precedenza erano un milione e mezzo, hanno lasciato il Paese per il timore di violenze e la persecuzione religiosa, soprattutto dopo il massacro che ha avuto luogo a Baghdad nel 2010, nella chiesa di Nostra Signora del Perpetuo soccorso e l'attacco agli studenti cristiani di Qaraqosh, diretti all'università.
L'appropriazione dei beni appartenenti ai cristiani, considerati come privi di diritti perché non musulmani, le lettere di minaccia ricevute dai cristiani, così come da membri di altre minoranze non musulmane, spingono i cristiani a sentirsi come cittadini di serie B. Dunque, la domanda è questa: questi uomini e queste donne che hanno un passato grande e illustre alle spalle, sono destinati a scomparire dalla Mesopotamia e dalla terra dei loro avi?

In Siria, i cristiani sono esposti agli attacchi dei ribelli islamisti. Questi ultimi hanno spazzato via Maaloula, una storica città cristiana in cui gli abitanti parlano l'aramaico, la lingua di Gesù. Due vescovi, numerosi preti, dodici religiose sono stati rapiti e liberati di recente: 1200 cristiani sono stati uccisi, il 30% delle chiese sono state distrutte e 600mila cristiani hanno lasciato il Paese e quelli che sono rimasti vivono nell'inquietudine e nella paura!
Il pastore presbiteriano ed ex presidente del Consiglio delle Chiese del Medio oriente Riad Jarjour ha dichiarato: "Se la situazione continua in questo modo, verrà un momento in cui non ci saranno più cristiani in Siria".

I Copti in Egitto hanno subito i peggiori attacchi. I kamikaze musulmani hanno assassinato almeno 85 fedeli nella Chiesa di Tutti i Santi e un centinaio di chiese sono state oggetto di attacchi.
Il Libano è l'unico Paese della regione in cui i cristiani hanno ancora un peso politico e una certa libertà di azione, anche se il loro potere è parzialmente in declino a partire dall'accordo di Taëf, che rimane in bilico!

In poche parole, tutti i cristiani pensano all'emigrazione, almeno per un periodo di tempo determinato.


2 - L'importanza della presenza cristiana in Medio oriente
Il cristianesimo affonda le sue radici nel Medio oriente. In Palestina, Siria, Libano, Iraq ed Egitto i cristiani sono stati maggioranza ben prima dell'ingresso dell'islam. Erano ben organizzati e hanno contribuito alla costruzione della civiltà arabo-islamica accanto ai loro fratelli musulmani, ecco perché la loro presenza nel mondo arabo e musulmano è essenziale, anche per il solo stesso fatto della diversa religione, della loro apertura e delle loro competenze. In generale, i cristiani costituiscono una élite!
I cristiani non sono una minoranza e devono ricoprire a pieno titolo un posto e un ruolo nella vita pubblica, perché il venir meno di questo ruolo marcherebbe la fine della loro presenza. Il presidente libanese Michel Sleiman, inaugurando il primo Congresso generale dei cristiani d'Oriente, che si è tenuto a Raboué (Libano) il 28 e 29 ottobre 2013, ha affermato in proposito: "L'avvenire dei cristiani dipenderà dalla loro capacità di rafforzare la logica della moderazione, dell'apertura e del dialogo al loro interno, così come i loro sforzi per costruire uno Stato forte e inclusivo, che apre la via alla partecipazione di tutte le componenti della società nella vita politica e nell'amministrazione pubblica, senza tener conto del peso demografico delle comunità. Il ripiegamento verso se stessi e l'isolamento, così come il ricorso alla protezione militare straniera, diventa pericoloso".
Infine, Habib Ephram nel corso del medesimo congresso ha lanciato un appello commovente finalizzato a preservare l'identità dei cristiani d'Oriente nel rispetto della storia, del diritto e dell'umanità stessa.

C'è da sperare che questa lunga tradizione storica possa aiutare i cristiani della Siria e altri a preservare il loro ricco patrimonio e a continuare a offrire il loro prezioso contributo alle diverse culture esistenti.
I cristiani del Medio oriente possono giocare oggigiorno un ruolo essenziale nel dialogo tra l'Occidente e l'islam, possono essere un ponte che avvicina e unisce. Per questo l'Occidente è chiamato a mantenerli nei luoghi di origine. Robert Fisk in un articolo pubblicato sul quotidiano britannico "The Indipendent" descrive il fenomeno dell'emigrazione dei cristiani del Medio oriente, equiparandolo a un colpo per la civiltà arabo-islamica, e a una tragedia all'interno di un Paese considerato come un simbolo di pluralismo e coesistenza.


martedì 1 aprile 2014

« La nostra presenza dà a questa gente la forza di restare, e la loro permanenza qui rafforza la nostra decisione di restare. Siamo strette in questo abbraccio».


TEMPI , 1 aprile, 2014 
di Rodolfo Casadei

Un giorno nel monastero delle suore trappiste italiane in Siria. 





Reportage da Azeir, dove sorge il monastero di una piccola comunità di religiose italiane. «Più di tutto apprezzano il fatto che noi restiamo qui con loro, in un momento come questo, che sembra non finire mai»






AZEIR (confine settentrionale fra la Siria e il Libano). 
Stanno lì, fra l’arbusto delle rose tutto spinoso e ancora privo di boccioli, e un rosmarino verdeggiante. Modesti fiori color lilla, coi petali lunghi come quelli delle margherite che spuntano fuori da un centro nero e infossato. Si direbbero astri alpini. Dopo un inverno siccitoso, da due giorni la collina è spruzzata di pioggia e pettinata dal vento, e i colori si offrono freddi e introversi. «Forse ti stai chiedendo che senso ha coltivare fiori mentre intorno infuria la guerra. Ma è proprio adesso che c’è bisogno della bellezza. E anche per il futuro. Chi vivrà domani dovrà trovare qui la serenità che viene dalla bellezza».
Marta aggiusta la giacca a vento sull’abito trappista bianco e nero e guarda verso le colline più lontane, quelle dell’interno. L’ultimo profilo in fondo, azzurrino, meno arrotondato e più svettante di quelli intorno, è Krak des Chevaliers, l’antico castello crociato. Per due anni occupato dai jihadisti di Jabhat al Nusra, che vi sgozzavano i prigionieri nella piazza d’armi e poi collocavano le teste decapitate in cima alle torri.


Ventitré milioni di siriani cercano di immaginarsi la loro vita quando la guerra sarà finita. Molti cacciano via il pensiero come un’illusione molesta. Temono che non finirà mai o che loro non riusciranno a vedere i giorni della pace. Ma chi è che mette fra parentesi se stesso e col pensiero corre agli altri, ai siriani che sopravviveranno a questo olocausto che dura da tre anni e a quelli che nasceranno, quelli che saliranno su questa collina, dove oggi echeggiano le artiglierie, e cercheranno il Dio della pace negli spazi silenziosi di un monastero? Quattro monache cistercensi italiane: Marta, Marita, Adriana e Rosangela. Che qui ad Azeir, un piccolo villaggio maronita sul confine col Libano, a metà strada fra Homs e Tartus, hanno cominciato tre anni e mezzo fa a costruire il loro monastero.

In Siria le monache del monastero di Valserena, provincia di Pisa, sono arrivate nel 2005. Hanno vissuto per un certo tempo ad Aleppo, accolte dal vicario latino mons. Nazzaro, e intanto cercavano il luogo adatto per un insediamento. In Siria ci sono sempre stati monasteri ortodossi, soprattutto femminili, ma cattolici non ce n’erano più da parecchio tempo. Benché nei cattolici siriani fosse rimasto vivo il desiderio di esperienze di vita contemplativa. Ma la ragione per cui delle monache italiane hanno attraversato il mare e sono venute qui, e sono rimaste anche quando i tempi si sono fatti duri, è fondamentalmente un’altra.
Nel refettorio di quello che per ora è l’edificio principale del monastero (ma il progetto è di farne la foresteria e di costruire un altro fabbricato per il capitolo, il dormitorio, la biblioteca, la chiesa, ecc.) su un tavolo si scorge un libro: Christian de Chergé: une biographie spirituelle du prieur de Tibhirine. «Questa presenza monastica è il risultato della riflessione iniziata nel nostro ordine, nel ramo femminile come in quello maschile, sulla vicenda del monastero di Tibherine, in Algeria», commenta Marta, la priora.
Nel marzo del 1996 sette monaci trappisti cistercensi dell’abbazia di Nostra Signore dell’Atlante furono prelevati da presunti combattenti islamici e uccisi qualche tempo dopo. Un comunicato attribuito al Gia, il Gruppo islamico armato, quasi due mesi dopo il rapimento annunciò che erano stati sgozzati. I loro corpi non sono mai stati ritrovati: solo le teste decapitate.
Il loro priore era Christian de Chergé, nato in Alsazia quando questa era ancora governata dalla Germania e poi trasferitosi in tenera età in Algeria con la famiglia e col padre militare, comandante di un reggimento di artiglieria in Africa. Un paio di anni prima del rapimento che si sarebbe concluso con la morte, padre Christian aveva scritto una lettera d’addio che doveva rivelarsi profetica. Cominciava così: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese».  
le tombe dei  Trappisti di Tibhirine

 E concludeva: «Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo a-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! InshAllah».
«Per noi che eravamo lontane il significato della presenza dei nostri confratelli a Tibherine è diventato chiaro dopo la loro morte», spiega Marta. «Prima di allora, quel monastero era noto più che altro per i problemi che aveva avuto: era stato sul punto di essere chiuso, le autorità avevano limitato il numero dei monaci. Dopo il loro sacrificio, abbiamo sentito la chiamata che veniva dalla loro esperienza: quella di frati oranti che si erano dati in una gratuità totale. Tutto l’Ordine si è interrogato. Un primo gruppo di monache di tutto il mondo ha dato la sua disponibilità ad aprire un altro monastero in un paese islamico. Un tentativo in Tunisia due anni dopo è stato ben presto abbandonato. A Valserena io e suor Marita abbiamo sollevato la questione e manifestato la nostra disponibilità. La comunità ha deciso di assumere la fondazione di un monastero in un paese del Vicino Oriente, e insieme alla nostra superiora suor Monica abbiamo cercato. Abbiamo vissuto per alcuni anni in un appartamento ad Aleppo nel quartiere di Maidan, dove adesso c’è la guerra. Poi abbiamo cominciato a costruire qui, dove ci siamo trasferite nel settembre 2010».

monache-azeir-siria04Una presenza umile, «oranti fra gli oranti». «L’umiltà ti mette al posto giusto. Altrimenti perdi Cristo». In questa terra la preghiera della maggior parte degli oranti è quella islamica. Come vivere e comunicare la specificità cristiana con questi credenti? Come celebrare l’unità con loro senza scivolare nel relativismo o in un ecumenismo al ribasso? «Sì, quando si parla di dialogo fra persone di religione diversa si rischia sempre di scivolare nell’affermazione che una fede vale l’altra. Ma questo succede quando della fede non si fa esperienza, quando la si riduce a discorsi religiosi», spiega suor Marta.
«O la mia fede prende tutto, cioè è rapporto totale con Dio, oppure stiamo facendo solo discorsi religiosi. Questo è il tempo di manifestare la gioia del mio rapporto con Cristo, voglio fare conoscere a tutti questa gioia, qualunque sia il prezzo da pagare. Perciò non sarò mai d’accordo con chi dice “è tutto uguale, è tutto la stessa cosa”. La mia fede è l’anima della mia vita, e chiedo all’altro di parlarmi della sua. A partire da questo accolgo le parole semplici e sincere dei musulmani che mi dicono: “Abbiamo lo stesso Dio, siamo una cosa sola, preghiamo insieme”. Ma non sarà mai un sincretismo dottrinale: non posso rinunciare a Cristo».

C’è un dettaglio della vita del padre Christian de Chergé che solo i lettori della biografia conoscono: in gioventù aveva avuto la vita salvata da un amico musulmano algerino, Mohamed. Lo aveva difeso da un’aggressione di strada. Il giorno dopo Mohamed era stato trovato ucciso: aveva pagato con la vita il suo intervento in difesa di un infedele. Nel cuore di Christian erano riecheggiate le parole dell’amico, dopo che lui lo aveva ringraziato per il provvidenziale intervento e gli aveva promesso di pregare per lui: «Lo so che tu pregherai per me. Ma sai, i cristiani non sanno pregare!». E Christian era diventato un monaco trappista…




«C’è una bontà di fondo nei cristiani e nei musulmani di questo paese, che è la speranza della Siria», dice suor Marta. Fa effetto sentir dire queste parole dopo una notte percorsa dai tonfi sordi delle artiglierie, confusi coi rumori degli infissi scossi dal vento. I combattimenti attorno alla vicina Zara non hanno conosciuto requie: la pioggia notturna anziché spegnerli sembra averli eccitati. «È proprio quando c’è maltempo che i ribelli muovono le loro forze», aveva avvisato un ufficiale giù al posto di blocco a Talkalakh, sulla strada per venire qui, da poco tornata alla tranquillità. La cittadina al confine col Libano ha conosciuto assalti, battaglie, cambi di padrone sin dal maggio 2011. Da poco è in vigore un’altra tregua. Di notte ribelli arrivano dal Libano, scendono e poi risalgono la stretta vallata di confine, girano attorno alla collina di Azeir e del suo monastero, e si dirigono verso l’interno. Una mattina di due anni fa c’è stata una vera e propria battaglia coi soldati del vicino posto di blocco che è sconfinata nella proprietà del monastero, 300 metri da qui.

«Facciamo la spesa a Talkalakh, ci conoscono tutti e sanno che vogliamo bene a tutti. In corriera le donne, sunnite o alawite, cercano di parlare con noi. Ci confidano i loro problemi: senza conoscerci personalmente, solo sapendo che siamo venute fin qui e restiamo qui per pregare fra loro, si fidano di noi».
I lavori per l’allestimento del monastero sono quasi fermi a causa della situazione generale, ma quando erano in corso coinvolgevano persone di ogni estrazione religiosa. A curare gli alberi e l’orto erano un sunnita e un giovane alawita. «Sembravano proprio padre e figlio», ricorda con struggimento Marta.


 «È il rapporto personale con Dio che fa cambiare i rapporti fra le persone. È Dio che ci fa essere una cosa sola, ma occorre che ciascuno viva fino in fondo la sua fede. Noi preghiamo e lavoriamo i campi, abbiamo una vita semplice, e questo è un segno che la gente di qui, cristiani e musulmani, percepisce. In cuor loro, avrebbero preferito avere qui delle suore di vita attiva, che aprivano un asilo o un ambulatorio. Ma ammirano la preghiera e ne sentono il bisogno, sentono anche il bisogno di luoghi di preghiera come questo. E più di tutto apprezzano il fatto che noi restiamo qui con loro, in un momento come questo, che sembra non finire mai. La nostra presenza dà a questa gente la forza di restare, e la loro permanenza qui rafforza la nostra decisione di restare. Siamo strette in questo abbraccio».

http://www.tempi.it/un-giorno-nel-monastero-delle-suore-trappiste-italiane-in-siria-siamo-qui-per-far-conoscere-cristo-a-qualunque-prezzo#.Uzqw9EaKDwo

Per chi desiderasse sostenere la presenza delle Monache Trappiste in Siria:
http://www.valserena.it/associazione_nsdp_aiutosiria.html