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sabato 24 agosto 2013

Due appelli a Papa Francesco

  Il patriarca Bechara Raï: guerre in Medio Oriente, i cristiani pagano il prezzo più alto

 "Papa Francesco è il solo uomo a parlare di Pace. Solo la Santa Sede può mettere fine a una tale tragedia"




Radio Vaticana - 23-08-13

La situazione in Medio Oriente sta di giorno in giorno diventando sempre più critica: il cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti,  nell'intervista rilasciata a Manuella Affejee  http://media01.radiovaticana.va/audio/ra/00387136.RM

R. –  Vede, tutto quello che succede in Medio Oriente – sia in Egitto, sia in Siria, sia in Iraq – è una guerra che ha due dimensioni. In Iraq e in Siria, la guerra è tra sunniti e sciiti; in Egitto la guerra è tra fondamentalisti, tra cui i Fratelli musulmani, e i moderati. Sono guerre senza fine ma – mi dispiace di doverlo dire – ci sono dei Paesi, soprattutto occidentali, ma anche dell’Oriente, che stanno fomentando tutti questi conflitti. Bisogna trovare una soluzione a tutti questi problemi. Noi cristiani, da 1400 anni stiamo vivendo insieme ai musulmani, e abbiamo veicolato in queste terre valori umani, morali, i valori della multi-confessionalità, della pluralità, della modernità … Grazie alla presenza di noi cristiani, nella nostra vita quotidiana in tutti questi Paesi arabi abbiamo creato una certa moderazione nel mondo musulmano. Oggi assistiamo alla distruzione totale di tutto quello che i cristiani hanno costruito nel corso di 1400 anni. E, al contempo, i cristiani pagano per queste guerre tra sunniti e sciiti e tra moderati e fondamentalisti, per quanto riguarda l’Egitto.

D. – La minoranza cristiana in Egitto sta pagando un prezzo alto nell’attuale situazione …

R. –  Come sempre, quando si verifica il caos o quando c’è una guerra, in generale i musulmani si scatenano contro i cristiani, come se i cristiani fossero sempre il capro espiatorio. Mi dispiace, ma in Egitto sono stati i Fratelli musulmani che hanno attaccato le chiese dei copti e i copti stessi … Purtroppo, questa è la mentalità di certi musulmani: ogni volta che c’è una situazione di caos, si attaccano i cristiani senza nemmeno sapere perché! La stessa cosa è successa anche in Iraq, e sta succedendo in Siria e ora in Egitto. Loro non sanno perché attaccano i cristiani, ma è così. Quello che i cristiani chiedono, nel mondo arabo, è la sicurezza e la stabilità: tutto qui.

D. – I Fratelli musulmani giustificano le loro aggressioni nei riguardi dei cristiani accusandoli di avere sostenuto apertamente il rovesciamento di Morsi …

R. –  In tutto il mondo arabo, i cristiani sono dalla parte delle istituzioni, rispettano il Paese in cui vivono, le autorità e la Costituzione. E’ risaputo che in Egitto i Fratelli musulmani in un anno hanno fatto un passo indietro con l’intenzione di applicare la Sharìa, mentre il popolo egiziano reclamava riforme in campo politico. Tutte le manifestazioni popolari avevano come scopo la richiesta di riforme politiche, il che significava muoversi nella direzione della democrazia. E come al solito l’Occidente – non ho il titolo per fare il nome delle Nazioni specifiche – ha dato il suo contributo sotto forma di miliardi di dollari ai Fratelli musulmani, perché arrivassero al potere. Una volta ottenuto il potere, hanno iniziato ad applicare la Sharìa, la legge islamica, cioè hanno fatto marcia indietro. Certamente, i cristiani sono contrari a questo: i cristiani vogliono un Egitto riformato, democratico, un Egitto che sappia rispettare i diritti umani. Sono sempre leali con lo Stato e le istituzioni …

D. – Quali sono le sue previsioni per il futuro del Medio Oriente?

R. – Secondo la comprensione dei fatti del giorno, che noi viviamo, c’è un determinato progetto di distruzione del mondo arabo per interessi politici ed economici. C’è anche il progetto di acuire quanto più possibile i conflitti inter-confessionali nel mondo musulmano, tra sunniti e sciiti. Quindi, il progetto c’è, ed è un progetto di distruzione del Medio Oriente. Purtroppo, questa politica viene dall’esterno. Io ho scritto già due volte al Santo Padre per spiegargli quello che sta succedendo e gli ho raccontato tutta la verità oggettiva. Purtroppo, lo scopo è la distruzione del mondo arabo, e chi paga sono i cristiani. In Iraq su un milione e mezzo di cristiani ne abbiamo perso un milione, nel silenzio totale della comunità internazionale.

Il Gran Muftì al Papa: "Vieni in Siria a portare la pace"

«Vorrei tanto parlare con Papa Francesco perché lui è un uomo del popolo e non un uomo di potere. Vorrei esortarlo a venire qui in Siria. Ed anche in Egitto, Giordania e Palestina. Vorrei chiedergli d'incontrare i mufti musulmani, le autorità cristiane e quelle ebraiche per cercare una soluzione alle guerra che ci divide. Noi musulmani e voi cristiani abbiamo costruito moschee e chiese. Ma ora bisogna uscire da moschee e chiese per ascoltare la voce del popolo. Per questo Papa Francesco potrebbe aiutarci a metter fine alle guerre».



È la massima autorità religiosa del Paese, gli hanno ucciso un figlio. E a Papa Francesco dice: "Facciamo finire le guerre"

Il Giornale, 05/08/2013 
di Gian Micalessin



Il gran Muftì di Siria Ahmad Badreddin Hassoun la guerra la conosce bene. Ha 64 anni, da 13 è il gran Muftì di Siria. Due anni fa - dopo aver dichiarato di appoggiare il regime - ha sopportato l'uccisione del figlio 22enne freddato per vendetta alle porte di Aleppo. Eppure non ha mai esortato all'odio o alla vendetta. «Ho sempre spiegato - racconta in questa intervista a Il Giornale – che se Maometto avesse chiesto di uccidere non sarebbe stato un Profeta del Signore. Sono stato criticato da molti intellettuali musulmani, ma la verità è questa. Il Profeta a chi gli chiedeva di punire con la morte gli assassini ha sempre risposto che sarà Dio a condannarli per le sue colpe. Per questo ho perdonato chi ha ucciso mio figlio. E chiedo a tutti quelli che subiscono la stessa tragedia di fare lo stesso».
Lei però appoggia un governo accusato di massacrare il suo popolo...
«Se la Siria avesse fatto pace con Israele oggi sarebbe considerata il miglior paese del medio Oriente. Ho sempre ripetuto ad America e Israele fate la pace invece di raccontare bugie».
Le accuse arrivano anche dall'Europa..
«Nel 2008 il Parlamento europeo mi invitò a Bruxelles. Quando ho chiesto di mandare una delegazione a vedere quel che succede in Siria mi hanno risposto che verranno solo quando andrà via Assad. Com'è possibile accettare questi diktat da chi sta lontano e rifiuta di vedere la verità? Sono pronto a venire da voi e incontrare tutti i membri dell'opposizione. Il grande crimine dell'Europa è tagliare i canali diplomatici con la Siria, nascondere la vera immagine di questa guerra. L'ambasciatore francese all'inizio del caos cercò di farlo, ma Parigi gli ricordò che era l'ambasciatore di Francia non della Siria».
Perché credervi?
«Avete visto cos'è successo in Iraq? C'era un Saddam Hussein e adesso ne avete trenta. In Tunisia c'era un presidente e ora c'è il caos. In Libia avete fatto fuori Gheddafi e ve ne ritrovate altri cento. L'Egitto è ormai fuori controllo. Volete succeda anche in Siria? Se qui sorge uno stato islamico la guerra arriverà al cuore dell'Europa».
In Medio Oriente si temono nuovi attacchi di Al Qaida. Perché tanto odio per l'Occidente.
«Il problema è l'America. Guardate le manifestazioni a favore dei Fratelli Musulmani e dei militari in Egitto. Il punto comune è l'odio di entrambi per gli Usa. Al Qaida e queste minacce sono figlie degli stessi errori. L'America ha creato i talebani e loro hanno creato Al Qaida».
Tra le grinfie di Al Qaida è finito anche Paolo Dall'Oglio un prete italiano molto conosciuto qui in Siria….
«Mi auguro torni in Italia vivo. Paolo lo conosco bene, si è messo nei guai perché si è spinto in una terra senza legge. Dio insegna ad entrare nelle case dalla porta. Lui ci è entrato da dietro. Quando è arrivato in Siria l'ho accolto come un fratello, non come uno straniero. L'ho difeso dalle accuse della stessa chiesa cattolica siriana. Ma quando l'ho visto camminare con i ribelli ho capito che lui non aveva una vera vocazione di pace. Provo molta più angoscia per la sorte del vescovo siriaco Yohanna Ibrahim e di quello greco ortodosso Boulos Yazij rapiti da Al Qaida ad aprile. Loro cercavano veramente la riconciliazione».
In Siria è scomparso anche il giornalista Domenico Quirico entrato nel paese con i ribelli….
«Queste cose succedono perché i vostri mezzi d'informazione si fanno suggestionare dalla propaganda».
Dall'Europa sono partiti 600 volontari musulmani venuti a combattere contro il regime che lei difende….
«Lo so. E so che tra loro c'era anche un giovane italiano è morto da queste parti. A tutti questi musulmani vorrei dire di non svendere il proprio cervello. La nostra religione insegna la pace, non la guerra. A questi giovani chiedo di studiare bene il Corano e di non credere a chi li esorta a combattere all'estero. Un buon musulmano viaggia per costruire la pace non per combattere».
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Il Gran Muftì è la massima autorità religiosa dei sunniti di Siria. Emette pareri legali ed editti, fatwa ed interpretazioni della legge islamica se richiesto dai privati o dai giudici nell'ambito di un contenzioso. Le opinioni raccolte dal Gran Mufti servono come fonte d'informazione sull'applicazione pratica della legge islamica. Ahmad Badreddin Hassoun ricopre la carica dal luglio 2005. Invitato prima della guerra civile a numerosi incontri interreligiosi ha sempre sostenuto la necessità del dialogo tra le fedi. Ha sempre difeso il regime e sconfessato come musulmani appoggiati e pagati dall'estero i ribelli che combattono contro il governo.

http://www.ilgiornale.it/news/esteri/gran-muft-papa-vieni-siria-portare-pace-chi-ha-sconfessato-i-941258.html

Gran Muftì di Siria: il Profeta condanna chi uccide. 

Intervista a Ahmad Badreddin Hassoun, esclusiva Rainews24

giovedì 22 agosto 2013

L'ORRORE ABITA IN SIRIA


Contenitori di gas tossico in Siria

da "Piccole Note" - 22 agosto 2013

«L’attacco con agenti tossici ieri in Siria sembra avere tutte le caratteristiche di un nuovo incidente del Tonchino: un “casus belli” creato ad arte per giustificare un’escalation militare delle potenze straniere, come quello che nel ’64 autorizzò l’intervento americano in Vietnam. La verità la scoprirà soltanto un’indagine polizesca: le impronte digitali sono fatte apposta per condurre all’esercito siriano». 
A commentare in questo modo la strage provocata in Siria dall’uso di gas tossico è Gwyn Winfield, alla guida delle Falcon Communications, autorità riconosciuta nel campo delle armi non convenzionali. Per Winfield, che ha rilasciato un’intervista alla Repubblica del 22 agosto, l’autore della strage non è Assad, e spiega: «È difficile credere che il regime di Assad lanci un’offensiva del genere in simultanea con l’arrivo a Damasco degli ispettori Onu incaricati delle indagini sulle armi chimiche. Come in ogni omicidio, l’investigatore dovrebbe chiedersi: cui prodest? Non giova certo al regime, che in ogni caso verrà incolpato».

Nota  a margine. Di fronte all’ennesimo orrore tanti quotidiani hanno ospitato articoli nei quali venivano esposte considerazioni simili a quella riportata. La tragedia siriana, quindi, precipita in un nuovo orrore. Sul quale è bene interrogarsi.

C’è un’ulteriore spiegazione, più sottile, che viene data alla strage del 21 agosto. Gli ispettori Onu erano appena arrivati in Siria per investigare su un’altra strage, quella avvenuta a Khan al-Assal nel marzo scorso: anche lì fu usato del gas tossico e incolpato il regime di Damasco. 
La Russia di recente aveva consegnato all’Onu un dossier nel quale si documenta la responsabilità dei ribelli nell’attacco di Khan al-Assal. Una tesi che è stata supportata anche da testimonianze concordi di diversi siriani scampati alla strage.
Dopo mesi di trattative, finalmente, ieri erano giunti a Damasco gli ispettori; i quali, però, date le circostanze, non indagheranno più sulla strage precedente, ma sull’attuale. Così, secondo il sito cattolico Le Vielleur de Ninive, la strage di ieri sarebbe stata perpetrata anche per un altro motivo: deviare le indagini dalla strage di Khan al-Assal (nella speranza, ovviamente, che il nuovo crimine sia stato organizzato meglio e venga attribuito ad Assad).

L’ultima considerazione che vogliamo fare sulla questione è un po’ forte e va presa per quel che è, una ipotesi senza alcun riscontro, frutto di mero ragionamento.
Chi ha seguito anche distrattamente le vicende siriane sa della sparizione di padre Paolo Dall’Oglio, scomparso il 28 luglio scorso. Non si sa nulla di lui, se non che è sparito in una zona controllata dalla forze anti-Assad. Le voci rimbalzano: forse è stato ucciso, forse solo sequestrato: finora non c’è stato nessun segnale credibile della sua esistenza in vita se non un sms inviato dal suo cellulare, che potrebbe aver inviato chiunque.
Padre Dall’Oglio è stato fin dal primo momento un fautore della cosiddetta ribellione siriana e un acerrimo nemico del regime di Damasco, che ha attaccato in diversi articoli e interviste. Pochi giorni prima di sparire, ha scritto un articolo sull’Huffingotn Post. Era il 19 luglio scorso, e l’articolo, al solito, era molto polemico con il regime. Ma c’è un passaggio, sorprendente a rileggerlo ora, che riportiamo: «Ma guardiamo alla cosa dal punto di vista etico della rivoluzione siriana. Ammettiamo per un istante che ci fossimo appropriati di armi chimiche sottratte agli arsenali di regime conquistati eroicamente. Immaginiamo di avere la capacità di usarle contro le forze armate del regime per risolvere il conflitto a nostro favore e salvare il nostro popolo da morte certa. Cosa ci sarebbe d’immorale?». 
Parole talmente forti che mettono i brividi. Troppo forti, invero, magari scritte in un momento di particolare scoramento. Ma ci potrebbe essere un’altra spiegazione. Dall’Oglio, nei suoi articoli, ha dimostrato di avere informazioni molto accurate di quanto accade all’interno delle milizie anti-Assad: ha buone fonti e ben addentrate.  Possibile quindi che sapesse che si stava preparando qualcosa e, in qualche modo, lo ha anticipato. Per una sorta di giustificazione previa? Un po’ forte a pensarlo. Molto più probabile, invece, che l’anticipazione fosse un modo per tentare di dare un segnale pubblico del pericolo imminente, lanciare un messaggio in bottiglia per tentare di fermare l’orrore incombente (nonostante l’avversione per il regime c’è un limite a tutto, tanto più che stiamo parlando di un padre gesuita).
Se fosse vero questo, il suo sequestro, se di sequestro si tratta e non di omicidio, ad opera dei cosiddetti ribelli potrebbe essere dovuto proprio a questa rivelazione.
Ripetiamo: quella esposta è solo un’ipotesi, potrebbe essere una semplice infelice coincidenza, ma appena abbiamo saputo del bombardamento con i gas in Siria, la nostra mente è corsa a quella rivelazione previa del gesuita. Nell’occasione, alle preghiere per le vittime dei gas tossici assassini, uniamo quelle per il padre scomparso.

http://www.piccolenote.it/13029/lorrore-abita-in-siria


Guerra in Siria. Mons. Tomasi: sì al dialogo, no a intervento armato



La crisi in Siria si aggrava e rischia di allargarsi dopo le immagini sconvolgenti di morte giunte ieri dal Paese con la possibilità che siano state usate armi chimiche contro i civili, compresi donne e bambini. Civili che stanno sempre più fuggendo dalla Siria creando un dramma nel dramma. Ascoltiamo in proposito la riflessione di mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra, al microfono di Sergio Centofanti:

R. – La comunità internazionale si sta giustamente preoccupando per gli ultimi sviluppi in Siria, che hanno fatto decine e decine di morti. Primo punto da osservare mi pare sia quello che il Santo Padre ha già sottolineato e cioè che la violenza non porta a nessuna soluzione e che quindi bisogna riprendere il dialogo per poter arrivare a Ginevra 2, dove i rappresentanti di tutte le componenti della società siriana possano essere presenti, esporre le loro ragioni e insieme creare una specie di governo di transizione. Per ottenere quest’obiettivo non si possono mettere condizioni che rendano di fatto impossibile questa iniziativa, come escludere l’uno o l’altro dei gruppi che sono coinvolti. Mi pare che questo sforzo sia assolutamente necessario per fermare la violenza. Occorre anche non continuare ad inviare armi sia all’opposizione che al governo. Non si crea certamente la pace, infatti, portando nuove armi a questa gente. Mi pare poi che per arrivare ad una giusta soluzione si debba evitare una lettura parziale della realtà della Siria e del Medio Oriente in generale. Ho l’impressione che la stampa e i grandi mezzi di comunicazione non considerino tutti gli aspetti che creano questa situazione di violenza e di continuo conflitto. Abbiamo visto in Egitto il caso dei Fratelli Musulmani, dove l’appoggio indiscriminato a loro ha portato ad altra violenza. Ci sono degli interessi ovvi: chi vuole un governo sunnita in Siria; chi vuole mantenere una partecipazione di tutte le minoranze. Bisognerebbe, quindi, partire dal concetto di cittadinanza, rispettare ogni cittadino come cittadino del Paese, e poi lasciare che le identità religiose, etniche, politiche, si sviluppino in un contesto di dialogo.

D. – In Siria ora si parla di attacchi con armi chimiche, anche se Damasco smentisce categoricamente...

R. – Non bisogna accelerare un giudizio senza avere sufficiente evidenza. La comunità internazionale, attraverso gli osservatori delle Nazioni Unite, che sono già presenti in Siria, potrebbe far luce su questa nuova tragedia. Non si può, a mio avviso, partire già con un pregiudizio, dicendo che questo o quello sono responsabili. Dobbiamo chiarire il fatto, anche perché da un punto di vista d’interessi immediati, al governo di Damasco non serve questo tipo di tragedia, sapendo che ne è comunque incolpato direttamente. Come nel caso delle investigazioni di un omicidio, bisogna farsi la domanda: a chi veramente interessa questo tipo di crimine disumano?

D. – C’è chi parla d’intervento armato, se fosse confermato l’attacco chimico...

R. – L’esperienza di simili interventi in Medio Oriente, in Iraq, in Afghanistan, mostrano che la strada dell’intervento armato non ha portato nessun risultato costruttivo. Rimane valido il principio: con la guerra si perde tutto.


Testo proveniente dalla pagina del sito RadioVaticana http://it.radiovaticana.va/news/2013/08/22/guerra_in_siria._mons._tomasi:_sì_al_dialogo,_no_a_intervento_armato/it1-721745


 

martedì 20 agosto 2013

Sulle due sponde mediterranee. Appello ai cristiani.

di Riccardo Redaelli



Sono ormai decine le chiese prese d’as­salto e bruciate in Egitto. E innumerevo­li le abitazioni, le scuole e i negozi della mi­noranza cristiana messi a ferro e fuoco. Nel Paese sconvolto dalla carneficina di questi giorni – in cui l’estremismo delle fazioni ha preso il sopravvento su ogni tentativo di mo­derazione e compromesso – i cittadini di fe­de copta vivono una tragedia nella tragedia: quella di essere un bersaglio facile, spesso indifeso, della rabbia islamista, che accusa i cristiani di aver boicottato la presidenza Morsi. Tanto che lo stesso imam di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, la più alta autorità reli­giosa sunnita, è intervenuto per chiedere la cessazione di questi attacchi e la protezione delle chiese.


Non è purtroppo una novità: in Medio O­riente, negli ultimi decenni, non vi è stata crisi politica e di sicurezza che non abbia vi­sto le minoranze cristiane quali vittime de­signate, dall’Iraq post-Saddam all’Egitto, dal­l’Algeria degli anni 90 alla Siria oggi scon­volta dalla guerra civile. Agli occhi dei setta­ri, quelle comunità appaiono infatti come una presenza pericolosa: ora accusate di complottare contro i partiti dell’islam poli­tico – e quindi di essere il nemico subdolo che mina la rivoluzione – ora additati come portatori dei deprecati valori “occidentali” e dell’idea di democrazia.
Dei “diversi” da al­lontanare o da schiacciare, perché testimo­niano la pluralità culturale e religiosa che è stata la caratteristica storica del Medio O­riente e che gli islamisti vogliono cancella­re a favore di una tetra e fittizia uniformità dottrinale.

Ed è paradossale pensare che le minacce ai cristiani del Medio Oriente vengano proprio perché essi incarnano i valori della tolleran­za e della democrazia, della pluralità reli­giosa e culturale, mentre in Europa avviene l’inverso: sempre più, la testimonianza del­l’essere cristiani è infatti dipinta come una sfida di retroguardia alla democrazia e alla tolleranza. Sulla sponda sud del Mediterra­neo vengono accusati di introdurre una de­mocrazia che minaccia la religione domi­nante, lungo quella settentrionale sono in­dicati come coloro che – in nome della reli­gione – sminuiscono la tolleranza e la ric­chezza culturale occidentale.

La colpa è del­le loro idee, che vengono attaccate come sempre più “balzane”: accompagnare al ri­spetto pieno di ogni apporto culturale e reli­gioso la salda consapevolezza delle radici giudaico–cristiane dell’Europa, la pretesa di festeggiare il Natale di Cristo a Natale e Pa­squa di Risurrezione a Pasqua, di difendere pubblicamente e anche a livello di discus­sione politica princìpi che saldano dottrina della Chiesa ai grandi valori della tradizione classica e del diritto delle genti.

Tutto ciò avviene perché si è diffuso il pre-giudizio – sbagliato e autolesionista – che al­la crescente pluralità etnica e culturale del­le popolazioni europee si debba rispondere nascondendo le proprie radici e omettendo ogni riferimento alla cultura cristiana che permea le nostre società. È quel fenomeno che viene chiamato di “neutralizzazione” del religioso. Apparentemente opposto a quel­lo che sembra un “eccesso di religione” dal­l’altra parte del Mediterraneo, e che invece a esso è strettamente collegato.

Perché tut­to ciò fa parte di una difficile, faticosa presa di coscienza del mutamento delle nostre so­cietà e del problema conseguente di rico­noscersi nella pluralità senza per questo di­venire una società di “indistinti”. Non a ca­so, il cardinale Scola, nel suo ultimo libro (“Non dimentichiamoci di Dio. Libertà di fe­di, di culture e politica”) sottolinea che lo spazio veramente pubblico, nelle società contemporanee, è solo quello che rende pos­sibile «il raccontarsi» reciproco, scommet­tendo sulla libertà dei cittadini di esprime­re la propria esperienza con una logica di mutuo riconoscimento. Una via obbligata sulle due sponde del Me­diterraneo. Dove il posto dei cristiani non può diventare quello del privato silente o, di nuovo, del martirio.

“Riconoscere” significa accettarsi e non negare ad alcuno e ad alcun gruppo e comunità di fede che accetti le sem­plici ed essenziali regole dell’autentica de­mocrazia piena cittadinanza, libertà di esi­stere e di dare significato e contributo alla vita delle società di cui è parte.
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/IL%20POSTO%20%20DEI%20CRISTIANI.aspx


APPELLO PER I CRISTIANI PERSEGUITATI

Padre Gheddo: i cristiani perseguitati sono la "rivoluzione" di  Gesù


Il Sussidiario - lunedì 19 agosto 2013
Intervista a padre Piero Gheddo 

Le decine di chiese date alle fiamme in questi giorni in Egitto confermano una  drammatica realtà che troppo spesso viene nascosta o volutamente censurata.
Ancora oggi, in molti Paesi del mondo, migliaia di cristiani vengono  perseguitati e costretti a subire ogni forma di violenza: ogni anno sono oltre  100mila i credenti uccisi, rapiti o torturati, mentre assistiamo a ripetute  distruzioni di luoghi di culto e simboli religiosi.
IlSussidiario.net ha commentato queste richieste con  padre Piero Gheddo, giornalista e missionario del Pime.

Come giudica l'appello del Meeting di Rimini?
 Si tratta indubbiamente di un messaggio attuale ed opportuno, del quale abbiamo  già parlato molte volte ma su cui è sempre necessario riportare l’attenzione.
Proprio perché il tema del Meeting di quest'anno è “Emergenza Uomo”, è  indispensabile tornare a parlare di questa drammatica situazione: in Egitto, ad  esempio, decine di chiese e di conventi sono stati bruciati.

Perché sono sempre i cristiani le prime vittime?
 Il cristianesimo ha rappresentato l’unica rivoluzione capace di cambiare  radicalmente il corso della storia umana. Siamo a conoscenza di tantissime  rivoluzioni, recenti e non, ma tutte si sono preoccupate di cambiare le leggi,  il potere politico o la disuguaglianza economica.
  
Cosa ha cambiato invece il cristianesimo?
 Ha cambiato il cuore dell’uomo, attraverso la Chiesa, la grazia di Dio, la  predicazione e i sacramenti. E proprio questo cambiamento rappresenta la  “rivoluzione” di Gesù, una rivoluzione dell’amore che ha portato al  riconoscimento della dignità e dell’uguaglianza di tutte le donne e di tutti gli  uomini, creati dallo stesso Dio. Non dimentichiamo che anche la Carta delle Nazioni Unite è fondata proprio sul cristianesimo e sui valori cristiani: la  rivoluzione dell’amore cambia in profondità l’uomo e, a lungo andare, anche la  società.

Spesso, in presenza di appelli, ci si chiede cosa possono fare i governi.  Secondo lei?
 Come sta avvenendo in Egitto, il caso più recente, spesso i Paesi non sembrano  neanche accorgersi delle continue persecuzioni, seppur denunciate. E’ per questo  motivo che la drammaticità di questa situazione dovrebbe essere sempre  evidenziata, appena possibile, ad esempio durante i viaggi istituzionali e  durante ogni accordo culturale o economico.

Che nesso c'è tra libertà religiosa e pace? Perché la libertà religiosa è il più  importante di tutti i diritti?
Perchè è il fondamento della libertà dell'uomo.....


lunedì 19 agosto 2013

Il vescovo-gesuita caldeo Antoine Audo spiega perché non potrà partecipare al Meeting di Rimini.

E racconta le paure, i fatalismi e i sorprendenti segni di speranza che convivono nella città sfigurata dalla guerra





Vaticaninsider - 11/08/2013
di Gianni Valente

«Dovevo andare al Meeting di Rimini, ma non è tempo di fare viaggi». Antoine Audo, gesuita e vescovo caldeo di Aleppo, preferisce stare accanto al suo popolo sofferente e non crede sia il momento di correre rischi inutili per partecipare a conferenze sulla condizione dei cristiani in Siria. Mentre spiega a Vatican Insider i motivi del suo forfait, Audo descrive la condizione attuale della città martire che era tra le più fiorenti del mondo arabo, e ora ha interi quartieri ridotti in macerie.


Da quando era iniziata la guerra, Lei era uscito e rientrato parecchie volte dalla Siria. E ora?

Ora è molto più pericoloso uscire da Aleppo. Devo essere prudente. E in ogni caso non è il momento di lasciare la mia gente. La tensione aumenta, e la presenza dei vescovi qui adesso è più importante per le nostre comunità, anche a livello psicologico. 
Si sente minacciato?
Tutti ripetono a me e agli altri vescovi di muoversi con discrezione, di non indossare le vesti episcopali quando usciamo per non essere rapiti anche noi come è successo al vescovo siro-ortodosso Yohanna Ibrahim e a quello greco- ortodosso Boulos al-Yazigi.
Che ne è stato di loro?
Girano tante voci. Le ultime, attribuite dai giornali a un politico degli Usa, collegavano il rapimento a un “complotto” con implicazioni ecclesiastiche per costringere il Patriarcato siro ortodosso a lasciare Damasco e a trasferirsi in Turchia. Ma non sono cose serie. Sono solo speculazioni interessate.
È circolata la notizia della sparizione di padre Dall’Oglio?
Ne parlano tutti. Tutti si chiedono quale fosse lo scopo del suo rientro in Siria. Il conflitto, il caos e la lotta tra le varie fazioni rende tutto ambiguo e problematico da spiegare.
Anche a Aleppo la situazione è confusa?
Qui cresce da mesi l’incertezza e la paura. Tutti si fanno in continuazione la stessa domanda: che ne sarà di noi? E l’inquietudine è particolarmente sentita nei quartieri cristiani. Secondo me, Aleppo continua a vivere la situazione peggiore, almeno dal punto di vista psicologico.
Per quale motivo?
Gli abitanti delle altre zone, compresa Damasco, hanno delle vie di fuga, se i loro quartieri vengono travolti dal conflitto. Da Damasco, da Homs, da Lattakia e dalla costa possono fuggire verso il Libano, la valle dei cristiani e Beirut. Aleppo invece è chiusa nella morsa delle forze in guerra. La Turchia lascia passare  le armi e i gruppi che entrano per combattere il regime di Assad, e il primo obiettivo rimane Aleppo. Mentre dicono che nel nord-est si consolida sempre di più il controllo dei curdi.
Dalle immagini satellitari diffuse da Amnesty si vedono quartieri di Aleppo ridotti in macerie.
Almeno in mezzo milione hanno dovuto lasciare le loro case. Ci sono zone completamente abbandonate. L’80 per cento della popolazione non lavora da mesi e mesi. Tanti non hanno più soldi nemmeno per mangiare.  Si respira dovunque una povertà disperata, in una città che una volta era fiorente e dinamica.
Quale stato d’animo registra tra i suoi fedeli?
In molti cresce il fatalismo: qualsiasi cosa accadrà - dicono - sarà volontà di Dio. Sono i discorsi che si fanno per tirare avanti. Altri provano a reagire, e la reazione più immediata e realista è la fuga, che è già iniziata da tempo. Chi ha ancora soldi e mezzi fugge verso il Libano, i Paesi del Golfo, o l’Europa. I poveri rimangono tutti qui.

O la fuga, o la rassegnazione.  Non c’e nient’altro?
I giovani, loro sono incredibili. Oggi quelli dei gruppi Scout hanno rimesso a posto le sale e gli impianti sportivi che gestiscono per ricominciare le loro attività. Vogliono uscire fuori dalla paura e dal senso di rovina che sembra inghiottire tutto.

 Il 28 luglio, mentre Papa Francesco era a Copacabana, più di mille giovani hanno partecipato a una giornata di preghiera e convivenza in comunione di spirito coi milioni di loro coetanei radunati dalla Gmg di Rio. Io e altri tre vescovi della città abbiamo partecipato a diversi momenti di quella giornata. E il prossimo fine settimana, dopo l’Assunta, circa 200 giovani organizzano un festival sulla speranza. Nella condizione in cui vivono, i nostri ragazzi sono molto colpiti e confortati quando sentono Papa Francesco che li invita a non farsi rubare la speranza.


E Lei?
Come vescovo e come gesuita mi sembra di cogliere dettagli importanti del suo stile, del suo modo di vivere la sua relazione con Cristo. Alla rinuncia di Benedetto XVI mi sono chiesto in che modo la Chiesa sarebbe mai potuta ripartire, dopo che si metteva da parte un teologo così grande e sensibile. Papa Francesco è stata la risposta inimmaginabile venuta dallo Spirito Santo. Come vescovo sento che è una ripartenza, un nuovo inizio.

http://vaticaninsider.lastampa.it/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/siria-syria-audo-meeting-rimini-27102/


ALEPPO: Il dolore della comunità dei Fratelli Maristi e di tutta Aleppo per l'assassinio del dottor Amine Antaki



Le strade che conducono alla città  di Aleppo sono sempre sotto attacco da parte di gruppi terroristici. Sabato 10 agosto. un autobus civile, che trasportava civili provenienti dal Libano ad Aleppo è stato attaccato da un gruppo terroristico della cosiddetta "opposizione armata" in Siria. Il Dr. Amine Antaki, uno dei passeggeri degli autobus, è stato ucciso durante l'attentato, come attestano i testimoni.

I terroristi hanno sparato contro il bus sulla strada Khanaser ad Aleppo per fermarlo. Il Dr. Antaki che sedeva dietro al conducente, è stato ucciso da un colpo in testa durante l'assalto. I terroristi responsabili dell'attacco sono membri di un gruppo estremista jihadista. Sua moglie, seduta accanto a lui,  è sopravvissuta all'aggressione.

 Il Dr. Amine Antaki, nato nel 1944 in Siria, è stato un ginecologo molto conosciuto in Aleppo. Egli è stato considerato come uno dei migliori medici in Siria. Egli è stato anche coinvolto in molte attività sociali.
Viene ricordata da tutti la sua bontà, la timida modestia e la grande generosità con cui si è speso senza riserve nel dispensare la propria competenza di ginecologo famoso ma semplice.

"Amine era un vero Marista per l'educazione, la sua spiritualità e la sua testimonianza".
Della sua collaborazione all'opera di solidarietà dei Fratelli Maristi abbiamo raccontato qui: 
http://oraprosiria.blogspot.it/2013/07/lettera-da-aleppo-notizie-dai-maristi.html

sabato 17 agosto 2013

Siria, la rivolta è nelle mani degli islamisti

e in Iraq  e in Egitto......


da La nuova Bussola Quotidiana , 09-08-2013
di Gianandrea Gaiani


Al di là dei toni propagandistici tre sono gli elementi che emergono dai recenti sviluppi militari del conflitto siriano. Innanzitutto i governativi sono all’offensiva e con successo nei settori di Homs e Aleppo grazie agli aiuti militari russi e ai volontari sciiti giunti da Iran, Libano e Iraq.

Il secondo elemento è rappresentato dal crescente peso delle brigate islamiste, salafiti e membri di al-Qaeda, all’interno della galassia dei rivoltosi. Ormai sono loro a guidare le operazioni più importanti e a scontrarsi sempre più spesso con le milizie laiche o moderate e con i curdi. Come ha riferito il ministro degli Esteri, Emma Bonino, sembra siano stati gli uomini di al-Qaeda in Siria e Iraq a catturare il gesuita Padre Dall'Oglio anche se (come nel caso del reporter Domenico Quirico) non vi sono state rivendicazioni ufficiali. Il sospetto è che la cattura di ostaggi occidentali si riveli funzionale al piano di al-Qaeda di proporre uno scambio con i prigionieri ancora detenuti a Guantanamo e in altre carceri.

Gli unici successi militari registrati dai ribelli siriani sono da attribuirsi alle forze jihadiste. Gli “stranieri” dell'organizzazione Jaish al-Muhajireen wa Ansar (Esercito degli Emigranti e degli Aiutanti), il cui leader è il georgiano Abu Omar al-Aishani, hanno espugnato la base aerea di al-Menagh, vicino ad Aleppo . "Il valore di questa base è altamente simbolico", ha detto Charles Lister, analista del Jane's Terrorism and Insurgency Center, società di consulenza militare britannica. "Si tratta della prima grande conquista da parte dell'opposizione dopo diversi mesi - ha aggiunto - ma dal momento che è sotto il controllo di gruppi jihadisti, dimostra l'importanza del loro ruolo nei combattimenti". Lister ha seguito nell'ultimo anno l'ascesa dell'organizzazione jihadista sul campo di battaglia siriano e ha visionato diversi loro video, tra cui uno in cui cittadini occidentali discutono della loro guerra contro Damasco e chiedono sostegno in lingua inglese, francese, tedesca, spagnola, oltre che araba. Secondo gli analisti britannici, citati anche dal Wall Street Journal, Jaish al-Muhajireen sarebbe "la principale organizzazione di reclutamento di non-siriani nel conflitto siriano" e opera in stretto coordinamento con i militanti di al-Qaeda in Siria, dello Stato Islamico dell'Iraq e al-Sham, alleati a loro volta con il Fronte al-Nusra, riconosciuta come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti.

Il 3 agosto le milizie jihadiste del Fronte al-Nusra, Liwa al-Islam, il Battaglione al-Tawhid, Meghaweer e il Battaglione dei Martiri di Qalamon hanno espugnato un vasto deposito di armi e munizioni nei pressi di Qaldun, villaggio situato una cinquantina di chilometri a nord-est di Damasco, a ridosso della strategica autostrada che la collega ad Aleppo. Non c’è da stupirsi se il numero due della Cia, Michael Morell, in una intervista al Wall Street Journal, ha dichiarato che quello siriano “è probabilmente il problema più impellente nel mondo oggi a causa della dimensione che sta assumendo", sottolineando la presenza di combattenti stranieri fra le fila dell'insurrezione, come nei peggiori momenti della guerra in Iraq. Il rischio è che il conflitto si estenda oltre le sue frontiere o che il regime del presidente Bashar al Assad crolli e che la Siria diventi un nuovo santuario per al Qaeda. Le armi in possesso del governo, comprese le armi chimiche, rischiano di ritrovarsi nelle mani sbagliate, ha avvertito.

Il terzo elemento è rappresentato dalla progressiva islamizzazione dei movimenti ribelli laici o moderati come l’Esercito Siriano Libero, composto da disertori sunniti che hanno abbandonato le forze governative. Un esempio indicativo giunge dalla fatwa emessa dal Consiglio della Magistratura unita, affiliato all’Els: si prevede un anno di carcere per chiunque non osservi il digiuno nelle ore del giorno durante il mese sacro del Ramadan. Provvedimenti forse determinati dall’islamizzazione dei costumi imposta dai finanziatori sauditi e qatarini dei ribelli ma che lascia ben pochi spiragli per sviluppi diversi da quelli ipotizzati da Morell nel caso cadesse il regime di Assad.

I nemici contro i quali si battono con maggiore accanimento i miliziani qaedisti sembrano però essere donne e croissant. La cosa potrebbe far sorridere ma, come ha riportato il quotidiano Asharq al-Awsat, pubblicato a Londra in lingua araba, una “commissione della sharia” di Aleppo ha emesso una fatwa per vietare il consumo dei croissant definendoli haram, cioè vietati dall’islam, perché il dolce a forma di mezzaluna nacque per celebrare la vittoria delle armate cristiane sui turchi che assediavano Vienna nel 1683. Come è facile intuire i croissant si sono diffusi in Siria con la dominazione coloniale francese ma i censori islamici li hanno messi al bando perché lo considerano un simbolo della vittoria degli infedeli sui musulmani. Sempre ad Aleppo un’altra fatwa vieta alle ”donne musulmane di truccarsi o di indossare abiti aderenti” quali jeans o camicette.
Con simili “liberatori" non c’è da stupirsi che Assad stia vincendo la guerra o, almeno, non la stia ancora perdendo.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-siria-la-rivolta-e-nelle-mani-degli-islamisti-7046.htm


"La frangia irachena di Al Qaeda e l’ideologia che porta alle stragi".

Lo sceicco Abu Mohammed al Julani, il capo del Fronte Al Nusra, affiliato ad Al Qaida, ha affermato  il 22 luglio scorso che i fondamentalisti che si battono contro il presidente Assad "non credono ne' ai partiti politici ne' alle elezioni parlamentari", ma solo a "un sistema di governo islamico".(ANSAmed).



La filiale irachena del network del terrore al Qaeda si chiama Isi – da non confondersi con l’omonimo servizio segreto pakistano legato ai vari servizi segreti occidentali. E lavora a pieno ritmo, a suon di autobombe. Così descrive la sua metodica attività Guido Olimpio sul Corriere della Sera dell’11 agosto: «Massacri che si ripetono a ritmo infernale e che solo nel mese di luglio hanno provocato quasi mille vittime. In febbraio, dopo un’altra ondata di attacchi, i terroristi hanno spiegato, senza giri di parole, quali sono i loro obiettivi. Il primo è il proseguimento della lotta dei sunniti contro i “politeisti”, termine con il quale identificano gli sciiti al potere».

L’agenzia terroristica irachena non manca di inviare rinforzi ai cosiddetti ribelli siriani. Conclude Olimpio: «La guerra di Damasco è presentata come un momento di un confronto più generale tra i sunniti e gli sciiti. Spiegazione fondata che si tramuta in una chiamata a raccolta di un conflitto destinato a durare e, magari, ad allargarsi ad altri Paesi del Medio Oriente. Ecco perché quanto avviene a Bagdad dovrebbe interessare tutti».


Nota a margine. Con la scusa delle inesistenti armi di distruzione di massa, si era intervenuti a Bagdad per portarvi libertà e democrazia, questa almeno la spiegazione ufficiale. Invece si è portato l’inferno, come scrive Olimpio. Riflettere su questi errori del passato potrebbe giovare a non commetterne altri. Purtroppo non è quello che sta accadendo in Siria.

http://www.piccolenote.it/12941/il-terrore-abita-in-iraq


Egitto, Fratelli musulmani contro tutti



La Bussola Quotidiana 17-08-2013
di Valentina Colombo

Esercito contro Fratelli musulmani. Fratelli musulmani contro  l’esercito, contro i cristiani e contro tutti coloro che non si oppongono al “colpo di Stato terrorista”. Dalia Ziada, responsabile dell’Ibn Khaldun Center” al Cairo denuncia: “I Fratelli musulmani hanno promesso attacchi massicci in tutto l’Egitto dopo la preghiera del venerdì a mezzogiorno. Lo chiamano il venerdì della rabbia! Considerando tutte le chiese e gli edifici governativi cui hanno dato fuoco negli ultimi due giorni, mi domando se qualcosa possa peggiorare ulteriormente! Per favore che Dio salvi l’Egitto dai terroristi!” 
Il giornalista siriano Naman Tarcha lancia un ennesimo grido d’allarme nel tentativo di farci aprire gli occhi: “I Fratelli musulmani sono un partito politico che si nasconde dietro la religione per prendere il potere”. 

    continua la lettura quihttp://www.lanuovabq.it/it/articoli-fratelli-musulmani-contro-tutti-7089.htm
filiale irachena del network del terrore al Qaeda si chiama Isi – da non confondersi con l’omonimo servizio segreto pakistano legato ai vari servizi segreti occidentali. E lavora a pieno ritmo, a suon di autobombe. Così descrive la sua metodica attività Guido Olimpio sul Corriere della Sera dell’11 agosto: «Massacri che si ripetono a ritmo infernale e che solo nel mese di luglio hanno provocato quasi mille vittime. In febbraio, dopo un’altra ondata di attacchi, i terroristi hanno spiegato, senza giri di parole, quali sono i loro obiettivi. Il primo è il proseguimento della lotta dei sunniti contro i “politeisti”, termine con il quale identificano gli sciiti al potere».
L’agenzia terroristica irachena non manca di inviare rinforzi ai cosiddetti ribelli siriani. Conclude Olimpio: «La guerra di Damasco è presentata come un momento di un confronto più generale tra i sunniti e gli sciiti. Spiegazione fondata che si tramuta in una chiamata a raccolta di un conflitto destinato a durare e, magari, ad allargarsi ad altri Paesi del Medio Oriente. Ecco perché quanto avviene a Bagdad dovrebbe interessare tutti».
Titolo dell’articolo: La frangia irachena di Al Qaeda e l’ideologia che porta alle stragi.

Nota a margine. Con la scusa delle inesistenti armi di distruzione di massa, si era intervenuti a Bagdad per portarvi libertà e democrazia, questa almeno la spiegazione ufficiale. Invece si è portato l’inferno, come scrive Olimpio. Riflettere su questi errori del passato potrebbe giovare a non commetterne altri. Purtroppo non è quello che sta accadendo in Siria.
La filiale irachena del network del terrore al Qaeda si chiama Isi – da non confondersi con l’omonimo servizio segreto pakistano legato ai vari servizi segreti occidentali. E lavora a pieno ritmo, a suon di autobombe. Così descrive la sua metodica attività Guido Olimpio sul Corriere della Sera dell’11 agosto: «Massacri che si ripetono a ritmo infernale e che solo nel mese di luglio hanno provocato quasi mille vittime. In febbraio, dopo un’altra ondata di attacchi, i terroristi hanno spiegato, senza giri di parole, quali sono i loro obiettivi. Il primo è il proseguimento della lotta dei sunniti contro i “politeisti”, termine con il quale identificano gli sciiti al potere».
L’agenzia terroristica irachena non manca di inviare rinforzi ai cosiddetti ribelli siriani. Conclude Olimpio: «La guerra di Damasco è presentata come un momento di un confronto più generale tra i sunniti e gli sciiti. Spiegazione fondata che si tramuta in una chiamata a raccolta di un conflitto destinato a durare e, magari, ad allargarsi ad altri Paesi del Medio Oriente. Ecco perché quanto avviene a Bagdad dovrebbe interessare tutti».
Titolo dell’articolo: La frangia irachena di Al Qaeda e l’ideologia che porta alle stragi.

Nota a margine. Con la scusa delle inesistenti armi di distruzione di massa, si era intervenuti a Bagdad per portarvi libertà e democrazia, questa almeno la spiegazione ufficiale. Invece si è portato l’inferno, come scrive Olimpio. Riflettere su questi errori del passato potrebbe giovare a non commetterne altri. Purtroppo non è quello che sta accadendo in Siria.
filiale irachena del network del terrore al Qaeda si chiama Isi – da non confondersi con l’omonimo servizio segreto pakistano legato ai vari servizi segreti occidentali. E lavora a pieno ritmo, a suon di autobombe. Così descrive la sua metodica attività Guido Olimpio sul Corriere della Sera dell’11 agosto: «Massacri che si ripetono a ritmo infernale e che solo nel mese di luglio hanno provocato quasi mille vittime. In febbraio, dopo un’altra ondata di attacchi, i terroristi hanno spiegato, senza giri di parole, quali sono i loro obiettivi. Il primo è il proseguimento della lotta dei sunniti contro i “politeisti”, termine con il quale identificano gli sciiti al potere».
L’agenzia terroristica irachena non manca di inviare rinforzi ai cosiddetti ribelli siriani. Conclude Olimpio: «La guerra di Damasco è presentata come un momento di un confronto più generale tra i sunniti e gli sciiti. Spiegazione fondata che si tramuta in una chiamata a raccolta di un conflitto destinato a durare e, magari, ad allargarsi ad altri Paesi del Medio Oriente. Ecco perché quanto avviene a Bagdad dovrebbe interessare tutti».
Titolo dell’articolo: La frangia irachena di Al Qaeda e l’ideologia che porta alle stragi.

Nota a margine. Con la scusa delle inesistenti armi di distruzione di massa, si era intervenuti a Bagdad per portarvi libertà e democrazia, questa almeno la spiegazione ufficiale. Invece si è portato l’inferno, come scrive Olimpio. Riflettere su questi errori del passato potrebbe giovare a non commetterne altri. Purtroppo non è quello che sta accadendo in Siria.

mercoledì 14 agosto 2013

"Speriamo nel Dio della vita. E siccome speriamo in Dio, possiamo anche sperare nell’uomo".


Il monastero in mezzo alla guerra «assurda e atroce». 


TEMPI, 19 giugno 2013
di  Leone Grotti

Quattro suore trappiste in terra musulmana. Un monastero cistercense di stretta osservanza appollaiato su una collina mentre tutt’intorno infuria la guerra. È la storia di suor Marta e altre tre monache italiane che otto anni fa hanno deciso di fondare un monastero in Siria, in un villaggio maronita al confine col Libano, fra Homs e Tartous. Le quattro sorelle si sono mischiate ai sunniti e agli alawiti «per seguire l’esperienza dei nostri fratelli di Tibhirine», i monaci uccisi in Algeria da terroristi islamici la cui storia è stata anche raccontata dal film Uomini di Dio.
A Tempi.it suor Marta racconta cosa significa «vivere in un contesto in cui i cristiani sono minoranza» e perché non se ne sono andate da «una guerra assurda e atroce» che «distrugge la maggioranza della Siria», con «i cecchini appostati sui tetti» e i proiettili che non risparmiano neanche il loro monastero.



Suor Marta, che cosa significa seguire l’esperienza dei monaci di Tibhirine?
Il cuore dell’esperienza dei nostri fratelli era ciò che loro stessi esprimevano, cioè sentirsi come degli “oranti in mezzo ad altri oranti”. Si percepivano così: uomini di preghiera, che entravano in dialogo con i loro vicini musulmani proprio attraverso la preghiera. Cioè lo stare, come uomini, di fronte a Dio.


siria-suore-2
Perché avete deciso di ripetere la loro esperienza?
Ci siamo sentite interpellate da questa eredità, da questa “proposta” di vita: in un contesto in cui i cristiani sono minoranza, riscegliere la nostra vocazione monastica – nulla anteporre a Cristo – diventa allo stesso tempo un invito alla radicalità e un’apertura all’altro.
Perché proprio la Siria?
La scelta della Siria è dovuta a un cammino “provvidenziale”, di segno in segno. Non sapevamo nulla, allora, di questo paese. Pensare all’Algeria, soprattutto come donne, era impossibile. In Marocco c’è già una comunità di fratelli, fra cui i sopravvissuti di Tibhirine, e i vescovi in quel momento desideravano un profilo basso, niente comunità nuove. Allora abbiamo girato lo sguardo dal Maghreb al Mashreq e con l’aiuto di religiosi amici abbiamo fatto il primo viaggio sul posto, incontrando alcuni vescovi. Tutti ci hanno accolto bene, il vicario latino monsignor Nazzaro ci ha offerto un appartamento ad Aleppo, accanto ad altre suore, dove alloggiare il tempo necessario per cercare un terreno dove costruire il monastero. Il dado era tratto.
Che differenza c’è tra l’Algeria e la Siria?
La scelta del Medio Oriente ha aggiunto alla realtà del vivere in un paese a maggioranza islamica anche quella di trovarci immerse nella vita e nelle tradizioni delle Chiese orientali, che sono tutte presenti in Siria, ad eccezione di quella Copta.

Come avete individuato il luogo dove costruire il monastero?
Siamo rimaste ad Aleppo più di cinque anni, nel frattempo abbiamo trovato un terreno rurale presso un villaggio maronita al confine col Libano, fra Homs e Tartous. Nella nostra zona ci sono due piccoli villaggi cristiani, e poi villaggi sunniti e alawiti. Ci è piaciuta subito questa convivenza fra diversi, che del resto avevamo trovato in tutta la Siria, ed anche la semplicità e la bellezza naturale della zona, adatte a fare del Monastero un luogo di pace, di ascolto profondo.
Come siete state accolte dalla popolazione siriana?
Sia ad Aleppo sia nel luogo dove ci siamo trasferite per costruire il Monastero siamo state sempre accolte da tutti con calore, con simpatia.
Nessuna diffidenza?
siria-suore-3No, nessuna. Anzi, siamo state molto aiutate dai cristiani e dai musulmani. In Siria si vive insieme, i rapporti sono quotidiani, continui. E soprattutto c’è molto rispetto per ciò che è “religioso”, per la preghiera, per la fede in Dio. È questo che ci ha fatto sempre sentire a casa. A volte, quando ritorniamo in Italia, ci sentiamo molto più “estranee” a Roma. Certo c’era curiosità, perché l’ambiente non è cristiano. La gente aveva il desiderio di capire chi eravamo, anche perché non siamo infermiere o insegnanti.
La vostra zona è stata colpita dalla guerra civile?
Nella nostra zona l’instabilità è cominciata da subito, molto prima che ad Aleppo, ad esempio, ma grazie a Dio non ha raggiunto la gravità e l’atrocità che ora colpisce la maggioranza della Siria. Ci sono stati scontri a fuoco, più volte anche sul nostro terreno, ma non c’è mai stata una volontà distruttiva verso di noi o verso il villaggio da nessuna delle parti in causa, anche se più volte i proiettili sono arrivati vicini e abbiamo avuto qualche danno agli edifici. Noi siamo vicine al confine con il Libano, quindi molto spesso la notte ci sono bande armate di ribelli che cercano di entrare in Siria, trasportando armi e accompagnando nuovi combattenti. Cercano di aprirsi un varco nella zona, per poi andare a Homs e nelle parti dove si combatte di più.

siria-suore-1Quali sono state le immediate conseguenze della guerra?
Per noi, come per tutti, è stata ed è una cosa logorante. Da subito nella zona si sono guastati i rapporti di convivenza tra sunniti e alawiti, e presto si è arrivati alla violenza. Ci sono state uccisioni di civili, cecchini sui tetti, una vera tristezza. Prima vivevamo tutti insieme, i ragazzi andavano nelle stesse scuole, i negozi erano uno accanto all’altro.

Perché avete deciso di restare, potendo riparare in Italia fino alla fine del conflitto?
Non ci sembrava possibile, e neanche lo desideravamo, fare diversamente. È il nostro popolo, il nostro Paese ormai. La nostra comunità in Italia ci sostiene e poi siamo col villaggio, viviamo tutto questo con loro. Nonostante la paura che proviamo quando i colpi arrivano troppo vicini al Monastero, per Grazia, siamo molto serene. Di fatto, senza averlo previsto, siamo anche nella sola zona della Siria, quella di Tartous, rimasta ancora “vivibile”.


E se la vostra zona fosse presa dai ribelli? Non vi spaventa la possibilità di rapimenti come avvenuto a due sacerdoti e due vescovi?
La paura della gente, qui, è che si possa fare del nostro villaggio qualcosa di simile a Quseyr, o altre zone di confine: una postazione fissa dei jihadisti, che costringerebbero i cristiani alla fuga e ucciderebbero tutti quelli che non si uniscono ai salafiti. La paura più forte è la pressione che può venire dal confine col Libano.

La Siria è spaccata in due, pro e contro Assad?

La popolazione è stanca, sfinita dalle violenze atroci, da una parte e dall’altra, e dalla morte di tante, tantissime persone, soprattutto giovani. Poi le sanzioni internazionali, un vero giogo iniquo che pesa quasi esclusivamente sui poveri e sui più poveri fra i poveri.
Perché?
Il costo della vita è salito alle stelle, tanta gente soffre la fame e non ha più casa. È difficile però parlare di due fazioni. Diciamo che le fazioni erano molto diversificate all’inizio; ma tutto ciò che poteva essere la realtà interna della Siria è stata fin da subito spazzata via dal gioco di interessi esterni che proprio niente hanno a che vedere con la libertà e la dignità dei siriani. Poi, col protrarsi di questa assurda guerra, si è arrivati all’esasperazione del conflitto fra sunniti e sciiti. Ma se questo è il gioco “esterno”, “storico”, all’interno non è sempre così vero: in fondo, all’interno della Siria sempre più ci si divide tra chi accetta questa logica di morte e chi la rifiuta. Tra chi accetta che una visione fondamentalista possa prendere il governo del paese e chi la rifiuta totalmente. E tra questi ci sono anche molti sunniti. È questa la vera speranza della Siria: la gente stessa, sperando che la maggioranza avrà il coraggio di rifiutare la logica del più forte.

L’Occidente è spaccato tra chi pensa che sarebbe meglio armare i ribelli e chi crede che il dialogo e la trattativa siano l’unica soluzione percorribile.
Nessun dubbio. Non c’è altra strada se non quella del dialogo, di una soluzione politica che rispetti veramente la volontà dei siriani. Tutti i siriani, però, non solo i più mediatici. Perché di questi ultimi si parla tanto, ma nella realtà hanno ben poca voce. In Siria ormai c’è un arsenale di armi spaventoso, messo in mano persino a ragazzini. Non si può essere ingenui: purtroppo c’è chi vuole tutto questo. Ma chi si chiede davvero dove sia il bene, basta che guardi attorno e pensi alla storia di questi ultimi decenni: c’è una sola situazione in cui le armi non abbiano portato morte, distruzione, avvilimento delle persone, annientamento delle culture? Mi sembra che la voce della Chiesa sia molto chiara, a cominciare dal Papa. Basterebbe ascoltarla.

Avete ancora speranza per il futuro della Siria?

Ci dà speranza soprattutto la gente, la loro capacità di portare questa situazione mettendosi nelle mani di Dio. Questa è una vera forza per un popolo. Noi, poi, siamo cristiane e la speranza che ci fa vivere è più profonda e più forte di qualunque atrocità, di qualunque devastazione. Noi speriamo nel Dio della vita. E siccome speriamo in Dio, possiamo anche sperare nell’uomo, aldilà di tutto, anche se forse ci sarà ancora molto da patire. E poi ci sarà tanto “lavoro” dopo, bisognerà ricostruire. Non solo gli edifici, ma soprattutto l’integrità delle coscienze, il perdono reciproco, il rispetto. C’è speranza perché Cristo è davvero risorto, attraverso tutte le nostre morti.


http://www.tempi.it/siria-noi-suore-trappiste-che-restiamo-nonostante-la-guerra-seguendo-esempio-dei-monaci-di-tibhirine#.UcHARG1H45s

lunedì 12 agosto 2013

Il dramma dei profughi siriani

Campo profughi di Zaatari






da: La nuova Bussola Quotidiana - 01-08-2013
di Danilo Quinto

La guerra civile che da oltre due anni sconvolge la Siria si stima abbia prodotto oltre 100mila morti, al ritmo di 5mila morti al mese. Secondo i rapporti di Save the Children, all'interno della Siria 4 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, compresi i 3,6 milioni di sfollati interni, di cui più di un milione si sarebbe aggiunto negli ultimi due mesi.

Mentre infuria la battaglia, che molti analisti considerano decisiva, attorno all'aeroporto internazionale di Aleppo, la seconda città del Paese, per conquistare la quale i ribelli lanciarono un anno fa una massiccia offensiva e che le forze fedeli al presidente Bashar El Assad stanno cercando ora di riprendersi, continua il dramma dei profughi, che conosce dimensioni spaventose. Se ne contano 6mila al giorno, decine di migliaia al mese e secondo le Nazioni Unite hanno raggiunto il numero complessivo di circa 2 milioni – che potrebbero diventare 3 milioni entro la fine dell’anno - di cui 2/3 hanno abbandonato il Paese dall’inizio di quest’anno. Vivono nei campi d’accoglienza sorti ai confini con la Turchia, il Libano. l’Egitto e la Giordania. Più della metà sono bambini e molti di loro arrivano nei campi separati dai genitori. Sono oggetto di un’ondata di xenofobia molto grave, tanto che L’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) ha espresso le sue preoccupazioni, denunciando perfino che tra gli arrestati e i detenuti in Egitto, sono inclusi diversi minorenni e siriani registrati presso l’Unhcr.

Issam Bishara, responsabile per la Siria dell'Agenzia papale per il sostegno umanitario e pastorale in Medio Oriente (Cnewa) – che è attiva lungo il confine libanese nel fornire sostegno alle famiglie cristiane sfollate, greche, siriane, ma soprattutto armene  - ha spiegato nei giorni scorsi ad Asia News che "A differenza di Turchia e Giordania, il Governo libanese ha preferito non rendere ufficiali i campi profughi lungo il confine siriano. Si tratta piuttosto di accampamenti improvvisati dagli stessi rifugiati siriani, su aiuto di partiti locali o donatori arabi". Antonio Guterres, Alto commissario per i rifugiati presso le Nazioni Unite, ha reso noto, in un rapporto diffuso un mese fa, che il numero di profughi presenti in Libano ha raggiunto una cifra pari al 25% della stessa popolazione libanese. Secondo la Caritas libanese, nei campi, dove è assai difficile assicurare l’intervento umanitario, iniziano a scoppiare le prime epidemie, alle quali si aggiunge l’inasprimento degli scontri confessionali. L’ingresso in campo di Hezbollah (il ‘partito di Dio’ libanese) al fianco di Assad, ha infatti rovesciato le sorti del conflitto in Siria in favore del regime, ma ha riacceso un violento scontro confessionale tra sciiti e sunniti in Libano, dove i rifugiati vengono considerati un grave rischio socio-economico. In base ai dati di un sondaggio diffuso di recente, l’ 82% dei libanesi accusa i siriani di rubare lavoro e più del 54% dei libanesi ritiene che si dovrebbero chiudere del tutto le frontiere ai siriani.

In questo contesto, foriero di rischi incalcolabili per l’intera Regione, da un lato alcuni Governi europei si limitano a fare appelli ai loro cittadini, perché con la generosità delle donazioni aiutino la sopravvivenza dei profughi accolti nei campi, che in questa torrida estate devono affrontare la pericolosa mancanza di acqua e dall’altro sembra sempre più lontano l’inizio di una Conferenza di pace - i colloqui erano inizialmente previsti per maggio; in seguito a difficoltà nel concordare chi avrebbe preso parte ad essi, il calendario era scivolato a giugno, poi a luglio e adesso si dice che il mese buono sarà settembre – che da più parti viene ritenuto l’unico strumento in grado di dipanare la situazione siriana.

Un dato è certo: quello diffuso, nei giorni scorsi, dal vice- segretario generale dell’ONU per gli affari umanitari, Valerie Amos, la quale ha comunicato che circa sette milioni di siriani hanno bisogno di aiuto umanitario urgente e che per mantenere i siriani dentro il Paese e dare sostegno ai profughi occorrono 3,1 miliardi di dollari. Sulla promessa degli aiuti fatta dai Governi occidentali - insieme ad un’azione politica finalmente seria ed efficace - si gioca buona parte dell’esito della crisi Siriana e il futuro del Paese.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-dramma-dei-profughi-siriani-6992.htm

Abusi e matrimoni forzati per i bambini rifugiati

foto Guillaume Briquet

Agenzia Fides - 7/8/2013

Zaatari  - La gente continua ad essere disperata e sempre più povera. I bambini fuggiti dalla guerra in Siria con le rispettive famiglie continuano ad essere sfruttati, abusati e costretti a matrimoni precoci, del tutto inusuali nel Paese. Circa due milioni di rifugiati siriani sono divisi prevalentemente tra Turchia, Libano, Giordania e Irak. 
L’Alto Commissariato per le Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha lanciato l’allarme per cercare misure di sicurezza più efficaci per evitare che i piccoli lavorino per portare avanti le rispettive famiglie, abbandonino la scuola o ritornino in Siria come bambini soldato. 
Dalle ultime stime dell’UNHCR nel campo di Zaatari, in Giordania, vivono 130 mila rifugiati siriani contro i quali si stanno costruendo vere reti di crimine organizzato, c’è anarchia totale e le loro scarse risorse vengono costantemente saccheggiate e distrutte. In Giordania, i rifugiati riescono a vivere solo fuori dai campi e controllati dalle autorità nazionali. 
Molti addirittura a causa delle difficili condizioni in cui si trovano a vivere a Zaatari, e agli alti livelli di criminalità che si registrano all’interno, preferiscono fuggire. 

http://www.fides.org/it/news/53315-ASIA_SIRIA_Abusi_e_matrimoni_forzati_per_i_bambini_rifugiati#.UgJ0R21H7wo


Il nunzio in Siria: c'è la disperazione dietro la tragedia di Catania


AVVENIRE- 10 agosto 2013


C'è una «forte disperazione» dietro alla tragedia  dell'immigrazione di Catania, dove sei migranti hanno perso la vita mentre tentavano di raggiungere la riva a bordo di un peschereccio sul quale viaggiavano, tra gli altri, profughi in fuga dalla Siria. A esprimere il suo dolore è il nunzio apostolico in Siria, Mario Zenari. «Oltre alle vittime del conflitto, il cui numero ha superato da tempo i 100mila morti indicati dalle Nazioni Unite, c'è chi ha perso la casa, chi non ha lavoro, chi vive in zone dove dilaga la criminalità e la malavita, in altre dove si tenta di imporre la Sharia. Queste persone da qualche parte devono andare», dice monsignor Zenari amareggiato.

Con alla mano i dati sui siriani di fede cristiana, il religioso indica come «i Paesi scandinavi» siano stati la meta prediletta anche prima del conflitto. L'emigrazione dei cristiani verso l'Europa è aumentata con lo scoppio della guerra nel marzo 2011, in cerca di un ambiente sicuro e affine per cultura e religione. «Sempre per i cristiani, in Europa ci sono comunità delle chiese orientali in Francia e in Belgio - spiega - L'Italia come destinazione di massa è invece un fenomeno nuovo. Bisogna vedere se (quello di Catania, ndr) è un caso isolato o se ce ne saranno altri».
Zenari riflette anche sull'identità di questi migranti siriani che hanno tentato di raggiungere l'Italia, ricordando che «solitamente i musulmani cercano di fuggire in un altro Paese arabo, come dimostra il milione e mezzo e più di profughi in Libano, Iraq, Turchia e Giordania. Ma abbiamo anche visto che le condizioni di vita in un campo profughi sono sempre più difficili».

Quello che Zenari può vedere con i suoi occhi, comunque, è che «le condizioni di vita in Siria sono sempre più difficili. Certe zone sono nel completo caos. Non c'è più il controllo del governo, non si sa chi comanda, la popolazione è sotto la spada di Damocle della criminalità, dilagano i sequestri delle persone appartenenti alla classe media, perchè i ricchi hanno già lasciato il Paese da tempo. Poi c'è il tentativo di imporre la Sharia, che non piace nemmeno ai musulmani. Le case distrutte, la mancanza di lavoro, i prezzi alle stelle: è chiaro che da una parte o dall'altra queste persone devono andare».