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giovedì 7 marzo 2024

Sulla via della Croce

 

OSSERVATORE ROMANO 

di padre Francesco Patton


La strada che a Gerusalemme sale dal Santuario della Flagellazione fino al Santo Sepolcro è chiamata la Via Dolorosa. È la strada che il Signore Gesù ha percorso dal luogo in cui è stato condannato a morte fino al luogo in cui è stato crocifisso, è morto, fu sepolto ed è risorto. Noi percorriamo questa stessa strada ogni venerdì dell’anno, ma in modo particolarmente solenne nei venerdì di Quaresima. Lo facciamo in mezzo al disinteresse dei passanti e alle grida dei venditori, passando in mezzo alle pattuglie che presidiano le vie della Città Vecchia e sfiorando chi forse nasconde, pronto a colpire, un coltello tra le pieghe della veste; fra lo strepito degli altoparlanti e gli sputi di chi crede di render gloria a Dio disprezzando i suoi simili: proprio come nell’unico Venerdì Santo della storia dell’umanità e di questa città. 

Qualche pio pellegrino si irrita per questo, qualcun altro si lamenta che è impossibile provare devozione. Eppure, questa è la Via Crucis più autentica e realistica che possiamo sperimentare: seguire Gesù Cristo non nel silenzio asettico di una chiesa ma in mezzo al rumore della vita quotidiana, non circondati da gente devota ma da persone che hanno ormai perso per strada la nozione del Dio misericordioso e fedele. Per me non c’è Via Crucis più bella e più autentica di questa, che mi educa a seguire le orme di Cristo nella vita di tutti i giorni, in mezzo alle distrazioni e alla confusione, tra l’indifferenza e il disprezzo, perché così è la vita di ogni cristiano gettato in questo mondo come testimone della luce che brilla nelle tenebre e dell’amore che prevale sul male.

Questa Via Crucis rumorosa e confusionaria è la metafora della vita cristiana e vorrei davvero riuscire in ogni occasione e ogni giorno a portare la mia croce e seguire Gesù Cristo sulla strada che sale fino al Calvario, e discende fino all’abisso della morte, per vedere spalancarsi, ma soltanto alla fine, le porte del Paradiso. 


Negli incontri fatti in questi anni con i giovani cristiani della Terra Santa è quasi sempre emersa una domanda: «Perché, anziché andarcene via, dovremmo rimanere qui in questa terra dove sembra che per noi non ci sia alcun futuro?». Mentre i pellegrini pensano che sia una grazia il poter venire in Terra Santa e il potersi fermare a lungo, magari per tutta la vita, per molti cristiani che ci vivono l’essere nati in Terra Santa sembra quasi una condanna, perché devono spesso sopportare una doppia discriminazione: quella di essere palestinesi e quella di essere cristiani. 

Negli ultimi cinquant’anni le comunità cristiane del Medio Oriente (i cui membri sono i discendenti delle prime comunità cristiane, quelle dalle quali anche noi abbiamo ricevuto il dono del Vangelo) hanno visto ridursi progressivamente il numero dei loro membri a causa di guerre che hanno condannato molti a lasciare il proprio paese per cercare un futuro altrove: è successo in Palestina, poi in Libano, in Iraq, in Siria, in Egitto e ora di nuovo in Israele e in Palestina.

Anche in questo caso, come nell’ora della condanna di Gesù, c’è chi se ne lava le mani. Non il povero Pilato trovatosi un giorno costretto a prendere una decisione e a emettere un giudizio che era al di là delle sue capacità. Oggi Pilato non è un individuo, ma un soggetto collettivo che ha il volto degli organismi internazionali paralizzati nella loro stessa struttura, dei potentati economici anonimi eppure capaci di condannare all’estinzione intere popolazioni in nome del profitto, di un sistema comunicativo che di nuovo si chiede con cinismo «Cos’è la verità?», senza però cercare la risposta a questa domanda decisiva.

Eppure anche oggi trovarsi al posto di Gesù nel subire un’ingiusta condanna non è una fatalità o una maledizione, è la chiamata a seguire le sue orme, a prolungare nella storia la sua testimonianza alla Verità, per la salvezza del mondo.

mercoledì 7 febbraio 2024

Non cali il silenzio

 

Un anno fa il terribile terremoto che rase al suolo il sud della Turchia e il nord-ovest della Siria, con un bilancio di quasi 60.000 vittime.


L'Osservatore Romano, 6 febbraio 2024

«È importante che non cali il silenzio sulla tragedia». È l’appello del vescovo Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente di Caritas Turchia, a un anno esatto dal terremoto che il 6 febbraio 2023 rase praticamente al suolo il sud della Turchia e il nord-ovest della Siria. Attraverso Caritas internationalis, in una nota, monsignor Bizzeti parla delle «conseguenze» che ancora oggi la popolazione vive: «Purtroppo non siamo fuori dall’emergenza: il numero degli sfollati è alto e la ricostruzione richiederà del tempo e l’aiuto di tutti», dice.

Nello spazio di sessantacinque secondi, 53.537 vite — secondo gli ultimi dati pubblicati dalle autorità di Ankara — vennero inghiottite dai cumuli di cemento degli edifici crollati su sé stessi, accartocciati, polverizzati. Ad esse vanno aggiunti i 6.000 morti registrati nella vicina Siria, Paese già insanguinato da oltre un decennio di guerra, dove una stima precisa dei danni è difficile da concretizzare ancora oggi. Un’unica certezza: quasi 60.000 vittime totali.

La «peggiore catastrofe della storia moderna», titolarono allora i giornali turchi. Undici province della Turchia vennero colpite. Più di 100.000 edifici crollati, 2,3 milioni danneggiati, 700.000 persone vivono tutt’oggi nei container, gente di Antakya, Gaziantep, Kahramanmaraş, solo per citare alcune delle città maggiormente danneggiate.

Secondo Save the Children, in Turchia un bambino su tre di quelli che hanno perso la casa per la violenza delle scosse — dopo la prima di magnitudo 7.8 del 6 febbraio, ne seguirono centinaia di altre — vive ancora in rifugi temporanei. Con essi, le loro famiglie. Per tutti i terremotati, la risposta all’emergenza della rete Caritas si è inizialmente concentrata sulla distribuzione di aiuti alimentari e kit igienici e sulla fornitura di alloggi. Si è poi estesa — spiega il comunicato di Caritas internationalis — al miglioramento delle condizioni di vita degli sfollati e ad attrezzature per gli alloggi temporanei, come ventilatori, frigoriferi, stufe. Stessa sollecitudine anche in Siria.

Lì, in base a dati dell’Onu, circa 265.000 persone sono state private delle loro case dal terremoto: 43.000 vivono ancora in rifugi. Centinaia i bambini rimasti orfani. Tra loro anche la piccola Aya, nata proprio il 6 febbraio e trovata viva tra i resti di un palazzo a nord-ovest di Aleppo, ancora attaccata al cordone ombelicale della mamma, morta per il crollo. Lo zio Khalil al-Sawadi, che ne è il tutore e la chiama Aafraa in memoria della madre scomparsa, in questi giorni ha mostrato alla stampa internazionale la foto che lo ritrae mentre, un anno fa, portava in salvo la piccola. Oggi Aya-Aafraa compie un anno. Di vita e, nonostante tutto, di speranza. (giada aquilino)

Siria, un anno dopo il terremoto: ad Aleppo la gente ha ancora paura

La testimonianza del religioso marista Georges Sabé, che lancia un appello alla comunità internazionale: siamo un popolo ridotto alla miseria, ci aiuti a ritrovare la dignità

VATICAN NEWS , 6 febbraio 2024

Era la notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023 quando un violento terremoto di magnitudo 7,5 devastava la Turchia sudorientale e la Siria nordoccidentale. Numerose le scosse nei giorni successivi, che hanno causato, in totale, quasi 60 mila morti. Si è trattato del peggior disastro naturale per la regione dal sisma del 1999 a Izmit. In Siria, Paese già provato da tredici anni di guerra, dove hanno perso la vita 6 mila persone, a un anno di distanza il timore per l’arrivo di nuove devastanti scosse non abbandona gli abitanti delle regioni colpite, ora alle prese con una crisi economica senza precedenti che ha generato tanta povertà. A tutto ciò si aggiunge lo stop, dall’1 gennaio, dell’invio degli aiuti alimentari del Programma alimentare delle Nazioni Unite, che ha sfamato quasi 5,6 milioni di siriani.

Ai media vaticani il religioso marista Georges Sabé, che vive ad Aleppo, una delle città del nordovest della Siria più colpite dal terremoto, racconta il suo sforzo quotidiano per ridare speranza alla gente e nell'intervista rilasciata chiede alle organizzazioni internazionali di non “abbandonare una popolazione sofferente”.

Che aspetto ha Aleppo oggi?

Ogni giorno vedo edifici in parte distrutti, in totale insicurezza, eppure, se un piano non è in rovina, spesso è abitato. In linea di principio, la gente non dovrebbe risiedere lì. Ma c'è chi, a causa della povertà, della miseria, perché quella era la propria casa, decide di viverci. Ci sono state persone che si sono spostate, tra le 500 e le 600 famiglie hanno dovuto cambiare luogo di residenza. La città non è ancora stata ricostruita, né la parte più colpita dalla guerra, né quella distrutta dal terremoto.

Al di là dei danni materiali, a un anno dal terremoto si notano conseguenze psicologiche tra i residenti ?

La parte peggiore di tutto questo è la paura. La paura si è insinuata in tante persone, sia tra i bambini, sia tra gli adulti, tra i giovani, tra i meno giovani... C'è gente che ha dormito per un po' vestita perché aveva paura. Ci sono bambini che fino a ora hanno avuto grandi difficoltà a separarsi dai genitori, sia di notte, ma per alcuni anche di giorno. C’è molto da fare: dobbiamo ricostruire gli edifici ma anche il sentimento di sicurezza di molte persone. Non dobbiamo dimenticare inoltre che questo trauma si fonde con l’esperienza della guerra, con tutte le sue conseguenze.

E tra le conseguenze della guerra c’è pure la crisi economica che ha colpito la Siria. Che ricadute ha nella sua vita quotidiana?

Ultimamente abbiamo, in parte, dimenticato il sisma, perché stiamo vivendo un terribile terremoto economico. Siamo ancora soggetti a sanzioni (internazionali, ndr). Queste sanzioni, anche se si sostiene che non colpiscono la popolazione, si riflettono nella nostra vita quotidiana. Ad esempio, siamo in pieno inverno e abbiamo solo due ore di elettricità al giorno. Ciò significa che siamo costantemente alla ricerca di modi per riscaldarci.

Al momento del terremoto avete ricevuto aiuto da alcune Ong e organizzazioni internazionali, in particolare dalle Nazioni Unite. Oggi com'è la situazione?

L'aiuto che è arrivato è stato molto limitato e da allora si è interrotto. La Siria, prima del 6 febbraio 2023, era già stata dimenticata dalle Ong, ma gli aiuti continuavano comunque. Dall’1 gennaio 2024, l’Agenzia per gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite, il Programma alimentare mondiale, ha sospeso tutti gli aiuti. Il motivo è che ci sono altri luoghi di intervento. Personalmente, credo che, sotto questo profilo, non abbiamo il diritto di abbandonare una popolazione che soffre. Che diritto abbiamo oggi di accettare che una popolazione viva nella povertà e nella miseria? Faccio un appello: occorre vivere con dignità. Non siamo mendicanti, ma abbiamo sofferto tante difficoltà, tanti problemi, tante disgrazie e l’umanità deve aiutarci a rimetterci in piedi, non ridurci all’accattonaggio.

Lei parlava di ricostruzione di un senso di sicurezza per gli abitanti di Aleppo. Come si può ritrovare la speranza in questa situazione?

Dobbiamo credere che la speranza è possibile. Nonostante un orizzonte chiuso, dobbiamo credere personalmente, comunitariamente, a livello di Chiesa, che la speranza è possibile e che il Signore non ci abbandona. Da questa speranza dobbiamo andare incontro agli altri, per servirli il più possibile e per fornire loro, sempre per quanto possibile, l'aiuto di cui hanno bisogno. La nostra fede ci aiuta ad andare avanti. Il Signore ha promesso di non dimenticarci, nemmeno in mezzo alla tempesta, come i discepoli sorpresi da una tempesta in mare aperto. Il Signore sembra dormire, ma è lì per calmare i nostri cuori e calmare le nostre menti. Questo è il principio su cui, attualmente, come maristi e maristi blu, stiamo lavorando per continuare a seminare speranza nel concreto, nel reale: con cesti alimentari, con sostegno psicologico, con l'educazione, con lo sviluppo umano, con gli aiuti per agli affitti.

domenica 6 marzo 2022

"Chiediamo alla Regina della Pace di stendere su di noi il suo manto"


In questa icona ucraina ( XVII-XVIII secolo) custodita ai Musei Vaticani, è raffigurato un noto tipo iconografico mariano che replica il celebre modello bizantino della Vergine Odigitria.

Il prototipo era custodito a Costantinopoli nel monastero Odigon e rappresentava la Madre di Dio con il Salvatore sul braccio sinistro, mentre con la mano destra lo mostrava ai fedeli. La parola Odigitria in greco significa, infatti, “colei che indica la via” (della Salvezza). Entrambe le figure erano rappresentate frontalmente: il Bambino benedicente nella mano sinistra recava un rotolo della Legge. Grazie alle numerosissime copie e repliche derivate dalla tavola originale costantinopolitana, l’icona dell’Odigitria diventò molto nota in tutto l’Oriente cristiano, incluse le terre ucraine.

Nell’antica Rus’ di Kyiv, le icone di questo tipo erano già conosciute nel XII-XIII secolo, anche se sembra che nessuna di queste repliche locali, giunte fino ai giorni nostri, possa essere datata prima del XIV secolo.

Sull’opera vaticana la Vergine è raffigurata a mezzo busto, veste una tunica blu con le maniche ornate ed è avvolta da un maphorion rosso con ampie pieghe e bordure dorate. Sulla fronte, e sicuramente anche sulle spalle di Maria oggi non più visibili, erano le tre tradizionali stelle, a simboleggiare la sua perpetua verginità. L’immagine del Bambino, che doveva essere raffigurato a piedi nudi, con chitone e himation, è quasi completamente perduta, restano soltanto parte del braccio e del nimbo; ai lati della Vergine si vedono due medaglioni tondi di colore blu e rosso, abitati dagli angeli. Inoltre, Madre e Figlio sono accompagnati dai loro tradizionali monogrammi.

Nel 2001 è stata realizzata anche una copia dell’opera originale, che ricostruisce in modo ideale la tavola originale semicancellata. Entrambe le icone furono donate a san Giovanni Paolo II in occasione del viaggio apostolico in Ucraina (2001); in seguito il Pontefice le donò a sua volta alla Congregazione per le Chiese Orientali. Infine, il 17 aprile 2004 le opere sono giunte ai Musei Vaticani.

In questi giorni tragici, la tavola originale, molto danneggiata nel corso della sua storia, sembra rispecchiare la sua terra di origine e il suo popolo, colpiti da una guerra inaspettata.

L’icona ucraina semidistrutta ne diventa quasi un simbolo: alla Vergine e a suo Figlio gli uomini e le donne affidano con speranza il loro destino.

di PIETRO BERESH

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-03/quo-053/la-madonna-odigitria-parla-di-speranza.html

venerdì 18 febbraio 2022

Dalle Chiese Cattoliche Orientali appello per la pace in Ucraina

18 febbraio 2022

I padri della sessione plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, preoccupati per l’evolversi della situazione in Ucraina, hanno condiviso il desiderio che, per quell’amato Paese, si levasse un accorato appello di pace, pronunciato dal cardinale prefetto Leonardo Sandri all’inizio dell’udienza. Ecco le sue parole.

Santo Padre,

La ringraziamo per il tempo che oggi ha voluto dedicarci, dapprima con i Patriarchi e gli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali cattoliche, e ora con i Membri del Dicastero riuniti nella Sessione Plenaria. Sono con noi anche i delegati delle Commissioni Liturgiche delle nostre Chiese, in occasione del Convegno per il XXV della pubblicazione dell’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche. Abbiamo lavorato insieme con loro mercoledì mattina, auspicando che lo stile di condivisione e di ascolto caratterizzi non soltanto queste giornate romane, ma il quotidiano del nostro essere Chiesa.

Tra noi è sorto il desiderio di porre nelle sue mani, Padre Santo, un appello condiviso che si unisce a quelli che Lei in queste settimane ha più volte rivolto per l’acuirsi della situazione in Ucraina e ai suoi confini. La Congregazione per le Chiese Orientali nacque per decisione di Papa Benedetto XV il 1° maggio 1917: tre mesi dopo, il 1° agosto, lo stesso Pontefice nuovamente scriveva ai responsabili delle Nazioni supplicando il dono della pace.

Ed ecco il testo dell’appello di pace per l’Ucraina.

Con il pensiero e il cuore rivolto ai nostri fratelli e sorelle in Ucraina, cominciando dall’Arcivescovo Maggiore della Chiesa greco-cattolica, Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, che ha voluto rimanere accanto al suo popolo in questi giorni, ed abbracciando tutti i figli e le figlie di quel Paese, greco-cattolici e cattolici latini, ortodossi e membri di altre confessioni e religioni, noi partecipanti alla Plenaria della Congregazione per le Chiese Orientali, ci ispiriamo alle parole che da Benedetto XV fino a Lei i Pontefici hanno più volte pronunciato: 

«Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio?». In un tale stato di cose, dinanzi alle minacce di nuove sofferenze e conflitti nella già provata Ucraina, mossi da un dovere di coscienza e ascoltando il grido dell’umanità “Mai più la guerra”, «alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni [...]: “Riflettete sulla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto dovere di procurare”. Possa il Signore, Lui che è il Re di giustizia e di pace, ispirarVi decisioni sagge per l’umanità che vi guarda: ricordate che “nulla è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra!”. Nel tempo presente e futuro possiate essere chiamati beati, perché avete costruito la pace, e avete trasformato le lance e le armi di oggi in falci e strumenti di prosperità e benessere per i popoli».

Grazie Padre Santo per essere ancora per noi e le nostre Chiese Orientali cattoliche, Padre ed artefice di pace e riconciliazione.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-02/quo-040/appello-per-la-pace-in-ucraina.html


Discorso di Papa Francesco ai partecipanti alla sessione plenaria della Congregazione per le Chiese orientali

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Ringrazio il Cardinale Sandri per le parole di saluto e di introduzione; e ringrazio ciascuno di voi per la presenza, specialmente chi viene da lontano.

Questa mattina avete pregato dinanzi alla Confessione dell’Apostolo Pietro, rinnovando insieme la professione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Lo stesso gesto che abbiamo compiuto prima della Messa di inizio del pontificato, per manifestare, come diceva il Papa Benedetto XV , che «nella Chiesa di Gesù Cristo, la quale non è né latina, né greca, né slava, ma cattolica non esiste alcuna discriminazione tra i suoi figli e che tutti, latini, greci, slavi e di altre nazionalità hanno la medesima importanza» (Enc. Dei Providentis, 1° maggio 1917). Proprio a lui, che è il fondatore della Congregazione per le Chiese Orientali e del Pontificio Istituto Orientale, va la nostra memoria riconoscente, a cento anni dalla sua morte. Egli denunciò l’inciviltà della guerra quale “inutile strage”. Il suo monito rimase inascoltato dai Capi delle Nazioni impegnate nel primo conflitto mondiale. Come inascoltato è stato l’appello di San Giovanni Paolo II per scongiurare il conflitto in Iraq.

Come in questo momento, in cui ci sono tante guerre dappertutto, questo appello sia dei Papi sia degli uomini e donne di buona volontà è inascoltato. Sembra che il premio più grande per la pace si dovrebbe dare alle guerre: una contraddizione! Siamo attaccati alle guerre, e questo è tragico. L’umanità, che si vanta di andare avanti nella scienza, nel pensiero, in tante cose belle, va indietro nel tessere la pace. È campione nel fare la guerra. E questo ci fa vergognare tutti. Dobbiamo pregare e chiedere perdono per questo atteggiamento.

Abbiamo sperato che non ci sarebbe stato bisogno di ripetere parole simili nel terzo millennio; eppure l’umanità sembra ancora brancolare nelle tenebre: abbiamo assistito alle stragi dei conflitti in Medio Oriente, in Siria e Iraq; a quelle nella regione etiopica del Tigrai; e venti minacciosi soffiano ancora nelle steppe dell’Europa Orientale, accendendo le micce e i fuochi delle armi e lasciando gelidi i cuori dei poveri e degli innocenti, questi non contano. E intanto continua il dramma del Libano, che ormai lascia tante persone senza pane; giovani e adulti hanno perso la speranza e lasciano quelle terre. Eppure esse sono la madre-patria delle Chiese Cattoliche Orientali: là si sono sviluppate custodendo tradizioni millenarie, e molti di voi, Membri del Dicastero, ne siete i figli e gli eredi.

Il vostro quotidiano è dunque come un impasto della polvere preziosa dell’oro del vostro passato e della testimonianza di fede eroica di molti nel presente, insieme però al fango delle miserie di cui siamo anche responsabili e del dolore che vi viene provocato da forze esterne. O ancora siete semi posti sugli steli e sui rami delle piante secolari, trasportati dal vento fino ad impensabili confini: i cattolici orientali ormai da decenni abitano continenti lontani, hanno solcato mari e oceani e attraversato pianure. Sono già costituite eparchie in Canada, negli Stati Uniti, in America Latina, in Europa, in Oceania, e molti altri sono affidati almeno per il momento ai Vescovi latini che coordinano l’azione pastorale attraverso i sacerdoti inviati secondo le corrette procedure dai rispettivi Capi di Chiesa, Patriarchi, Arcivescovi Maggiori o Metropoliti sui iuris.

Per questo i vostri lavori hanno trattato dell’evangelizzazione, che costituisce l’identità della Chiesa in ogni sua parte, anzi, la vocazione di ogni battezzato. E per la missione dobbiamo porci maggiormente in ascolto della ricchezza delle diverse tradizioni. Penso ad esempio all’itinerario del catecumenato degli adulti, che prevede la celebrazione dei Sacramenti dell’iniziazione cristiana in forma unitaria: una consuetudine che nelle Chiese Orientali è custodita e praticata anche per i fanciulli. In entrambi i percorsi si intuisce l’importanza di una sapiente catechesi mistagogica, che accompagni i battezzati di ogni età a una matura e gioiosa appartenenza alla comunità cristiana. Nella Chiesa latina ci manca questa catechesi mistagogica. Su questa strada sono preziose le diverse ministerialità nella Chiesa, come pure l’armonia nei rapporti con i religiosi e le religiose che operano secondo il carisma proprio anche nei vostri contesti. Su tutti questi aspetti vi siete soffermati in questi giorni.

C’è un’esperienza in cui la “creta” della nostra umanità si lascia plasmare, non dalle opinioni mutevoli o dalle pur necessarie analisi sociologiche, ma dalla Parola e dallo Spirito del Risorto. Questa esperienza è la liturgia. E questo ci fa pensare anche al cammino sinodale, anzi, al percorso sinodale. Il percorso sinodale non è un parlamento, non è un dirci le opinioni diverse e poi fare una sintesi o una votazione, no. Il percorso sinodale è camminare insieme sotto la guida dello Spirito Santo, e voi, nelle vostre Chiese, avete dei Sinodi, antiche tradizioni sinodali, e siete testimoni di questo. C’è lo Spirito, nella sinodalità, e quando non c’è lo Spirito c’è soltanto un parlamento o un sondaggio d’opinione, ma non il Sinodo. Questa esperienza — dicevo — è il cielo sulla terra, e questo si dà nella liturgia, come soprattutto l’Oriente ama ripetere. Ma la bellezza dei riti orientali è ben lungi dal costituire un’oasi di evasione o di conservazione. L’assemblea liturgica si riconosce tale non perché si convoca da sé stessa, ma perché ascolta la voce di un Altro, restando rivolta a Lui, e proprio per questo sente l’urgenza di andare verso il fratello e la sorella portando l’annuncio di Cristo. Anche quelle tradizioni che custodiscono l’uso dell’iconostasi, con la porta regale, oppure il velo che nasconde il santuario in alcuni momenti del rito, ci insegnano che tali elementi architettonici o rituali non trasmettono l’idea della distanza di Dio, ma al contrario esaltano il mistero di condiscendenza — di syncatabasi — nel quale il Verbo è venuto e viene nel mondo.

Il Convegno Liturgico per i 25 anni dell’Istruzione sull’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali è un’opportunità per conoscersi all’interno delle commissioni liturgiche delle diverse Chiese sui iuris; è un invito a camminare insieme al Dicastero e ai suoi Consultori, secondo la via indicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II . In tale cammino fa molto bene che ciascuna componente dell’unica e sinfonica Chiesa Cattolica si mantenga sempre in ascolto delle altre tradizioni, dei loro itinerari di ricerca e di riforma, custodendo però ciascuna la propria originalità. La fedeltà alla propria originalità è ciò che fa la ricchezza sinfonica delle Chiese orientali. Ci si può interrogare, per esempio, sulla possibile introduzione di edizioni della liturgia nelle lingue dei Paesi ove i propri fedeli si sono diffusi, ma sulla forma della celebrazione è necessario che si viva l’unità secondo quanto è stabilito dai Sinodi e approvato dalla Sede Apostolica, evitando particolarismi liturgici che, in realtà, manifestano divisioni di altro genere in seno alle rispettive Chiese. Inoltre, non dimentichiamo che i fratelli delle Chiese Ortodosse e Ortodosse Orientali ci guardano: anche se non possiamo sederci alla stessa mensa eucaristica, tuttavia quasi sempre celebriamo e preghiamo i medesimi testi liturgici. Stiamo attenti, pertanto, a sperimentazioni che possono nuocere al cammino verso l’unità visibile di tutti i discepoli di Cristo. Il mondo ha bisogno della testimonianza della comunione: se diamo scandalo con le dispute liturgiche — e purtroppo recentemente ce ne sono state alcune —, facciamo il gioco di colui che è maestro della divisione.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per il vostro lavoro di questi giorni. Vi sono sempre vicino nella preghiera. Portate ai vostri fedeli il mio incoraggiamento e la mia benedizione. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-02/quo-040/la-guerra-ci-fa-vergognare-tutti.html

sabato 19 giugno 2021

Giornata Mondiale del rifugiato: i dati desolanti del Medio Oriente

 "Cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità." (Papa Francesco) 

L'Osservatore Romano, 18 giugno 2021

 Il Medio Oriente è una regione critica dal punto di vista delle migrazioni e la sua importanza è significativa perché, al tempo stesso, è meta e luogo di origine di un gran numero di migranti e rifugiati. Questi ultimi sono cresciuti enormemente negli ultimi decenni passando dai quasi quattordici milioni del 1990 ai poco più di quarantatré milioni del 2017, il diciassette per cento del totale globale di rifugiati e migranti. 

Le drammatiche vicende che hanno riguardato la Palestina, la guerra civile in Libano, in Iraq, e più di recente il conflitto in Siria hanno costretto milioni di persone a lasciare le proprie case ed a cercare rifugio altrove. Più di sei milioni e mezzo di siriani hanno lasciato il proprio Paese dal 2011 ed altri sei milioni e mezzo hanno dovuto spostarsi in un’altra regione della nazione. La grande maggioranza dei rifugiati, circa cinque milioni e mezzo, ha trovato rifugio nei Paesi vicini tra i quali ci sono Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Il novantadue per cento di costoro vive in ambienti rurali oppure urbani mentre appena il cinque per cento vive nei campi profughi. La povertà, però, li colpisce tutti indistintamente dato che più del settanta per cento dei rifugiati siriani vive in povertà, con un accesso limitato ai servizi di base ed all’educazione. 

I governi della Giordania e del Libano hanno dovuto gestire un massiccio afflusso di rifugiati siriani proprio quando le risorse interne si sono trovate in una fase calante. Gli esecutivi, in assenza di una soluzione regionale per risolvere la crisi e temendo una lunga permanenza dei rifugiati, hanno reagito con il paradigma della non integrazione e tentando di far tornare i rifugiati al Paese di origine anche limitando l’accesso di costoro ai servizi e minandone i diritti. I confini, in precedenza aperti, sono stati posti sotto stretto controllo oppure chiusi. Queste restrizioni, però, si sono rivelate inefficaci ed hanno facilitato il traffico di esseri umani. I rifugiati siriani in Libano sono arrivati a vendere, a causa della disperazione, parti del proprio corpo nell’ambito del traffico di organi per riuscire a sostentare se stessi e le proprie famiglie.

La triste condizione dei siriani non appare troppo dissimile da quella dei rifugiati palestinesi, che hanno perso quello che avevano a causa del conflitto Arabo—Israeliano del 1948. I rifugiati palestinesi vivono perlopiù a Gaza, in Cisgiordania, in Libano ed in Giordania. Quattrocentocinquantamila palestinesi vivono da generazioni nei dodici campi che si trovano in Libano, dove il sovraffollamento e le infrastrutture disastrate hanno creato condizioni di vita poco sicure. 

Negli altri quarantasei campi sparpagliati tra Gaza, Giordania e Cisgiordania vivono invece un milione di palestinesi che, qualora il Paese ospitante si trovi ad affrontare una crisi, vengono deprivati per mesi dei servizi essenziali come l’elettricità. La nazione che ha ricevuto il numero più ampio di rifugiati palestinesi in seguito alla guerra del 1948 è la Giordania. Qui ai rifugiati si sono uniti quei Palestinesi cacciati dalla Cisgiordania dopo il 1967 ed entrambi i gruppi costituiscono il quarantaquattro per cento della popolazione giordana.  In Giordania la maggior parte dei rifugiati palestinesi ha la cittadinanza anche se quei pochi che non la posseggono, provenienti da Gaza o dalla Siria, sono trattati come residenti provvisori e non dispongono della maggior parte dei diritti e dei servizi. In Libano, invece, le condizioni dei rifugiati palestinesi sono estremamente precarie e la legislazione ne vieta l’accesso all’impiego ed ai servizi governativi. 

In Siria i palestinesi venivano trattati come i cittadini siriani ma il conflitto ne ha compromesso la sicurezza e li ha spinti a cercare rifugio nei Paesi vicini e all’estero. In Palestina, infine, i rifugiati devono fare i conti con i limiti alla libertà di movimento e con un’economia derelitta. I Palestinesi in Libano non sono mai stati riconosciuti come meritevoli di pieni diritti dal governo locale anche per il ruolo giocato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nell’ambito della Guerra Civile Libanese. La pandemia, se possibile, ha reso le cose ancora più difficili anche se molte persone, come la maggior parte dei residenti del campo di Burj Barajneh, che si trova a sud di Beirut, deve affrontare problemi esistenziali ben più gravi della possibilità di essere infettati dal coronavirus. Molti fanno affidamento sulle donazioni di cibo da parte delle organizzazioni ed anche il latte è diventato un alimento di lusso e non possono contare sull’economia del Libano, già in crisi e devastata dall’esplosione al porto di Beirut nell’agosto del 2020.

campo profughi palestinese di Burj al-Barajneh

La situazione in Iraq è particolarmente preoccupante e coinvolge più di nove milioni di cittadini che sono diventati migranti interni o rifugiati all’estero. Il dramma è stato provocato dalla guerre e dai problemi economici che, sin dai primi anni Ottanta, coinvolgono la nazione mediorientale.  L’invasione americana del 2003 ed i successivi combattimenti contro lo Stato Islamico sono stati fattori aggravanti e l’impatto sulle comunità locali è stato significativo. Artisti, ingegneri, avvocati e medici sono stati tra i primi a fuggire e questa migrazione ha provocato il collasso delle istituzioni culturali irachene e della classe media. L’Iraq ha visto il più alto numero di rifugiati ed il più alto tasso di persone disperse degli ultimi anni e questo fenomeno non si è ancora interrotto. I rifugiati iracheni sono sull’orlo del collasso nervoso ed attendono che l’incubo che stanno vivendo possa avere fine. Il grosso dei combattimenti è ormai terminato ma le conseguenze degli scontri sono ancora presenti e dovranno essere affrontate in breve tempo se si vorrà porre fine a questa grave emergenza umanitaria. 

In Yemen, dopo sei anni di conflitto catastrofico, milioni di persone non riescono a procurarsi il cibo necessario per sopravvivere ed il Paese è diventato oggetto della più grande crisi umanitaria mondiale. Quattro milioni di persone sono diventate rifugiate, loro malgrado, all’interno della propria nazione ed un milione tra loro vive in campi dove regna la disorganizzazione e dove non vengono soddisfatte nemmeno le necessità di base. Venti milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari, dodici di loro in maniera urgente ed il collasso dell’economia è stato esacerbato dal Covid-19. Otto persone su dieci vivono sotto la soglia di povertà ed un bambino, ogni dieci minuti, muore per una malattia che in altri tempi sarebbe stata curabile.

di Andrea Walton

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-06/quo-136/medio-oriente-br-tra-guerra-e-poverta.html

mercoledì 5 maggio 2021

Il mese mariano. La devozione a Nostra Signora di Ilige.

 
Simbolo della fede maronita

Per secoli è rimasta quasi nascosta nel villaggio di Mayfouq, tra le montagne alle spalle dell’antica Byblos, nel nord libanese. Ma negli ultimi decenni, la sua storia e anche le sue riproduzioni hanno iniziato a spargersi per tutto il Libano e oltre, in giro per il mondo. Nostra Signora di Ilige, l’icona del x secolo riapparsa all’inizio degli anni ottanta sotto gli strati di pittura che l’avevano coperta agli occhi del mondo, ora conforta e rinsalda la spiritualità mariana di tanti cristiani maroniti in tutti i continenti. Lo fa in maniera singolare, visto che la tavola di quell’icona si è in qualche modo impregnata anche della pioggia di travagli e sollievi che hanno segnato il cammino della cristianità maronita, anche nei suoi momenti più bui. Proprio davanti a quell’immagine hanno pregato, sperato e pianto i patriarchi e i monaci maroniti rifugiatisi per secoli nelle valli libanesi più appartate, in tempi di tribolazione. 

La “riscoperta” di Nostra Signora di Ilige, con tutti i suoi sorprendenti sviluppi, avviene nel 1980, quando l’ordine monastico che gestisce l’antica sede patriarcale di Mayfouq decide di restaurare un’icona posta da tempo immemore in una cappella, immagine venerata con particolare fervore dagli abitanti dei villaggi circostanti. Il restauro, iniziato dalle suore carmelitane del convento di Harissa e proseguito in Francia, dura sette anni e riporta alla luce l’affresco originale nascosto dietro ben sette strati pittorici che si erano sovrapposti lungo il tempo alla prima immagine, alterandone la fisionomia anche con l’introduzione di tratti iconografici di ascendenza occidentale. 

L’icona che riemerge dal lungo restauro esprime invece in maniera singolare la sua matrice siriaca autoctona, non influenzata da canoni artistici d’importazione. In essa, Maria appare con Gesù Bambino poggiato sul suo grembo. «Ha lo sguardo che assomiglia a quello di tante giovani donne mediorientali», ripetono tanti devoti dell’immagine, resa cara ai cristiani libanesi anche dal singolare intreccio che la unisce alla vicenda storica della Chiesa maronita. Nelle sue peripezie storiche, il patriarcato maronita fu spinto a porre la sua sede nell’isolato villaggio montano di Mayfouq dagli inizi del XII secolo fino alla metà del secolo XV , erigendo la chiesa di Ilige sui resti di un tempio pagano. Durante quei secoli, i patriarchi maroniti e i monaci che erano con loro hanno affidato chissà quante volte a Nostra Signora di Ilige le loro suppliche e le loro richieste di intercessione. I patriarchi usarono tante volte come rifugio proprio una stanza nascosta sopra la cappella che custodiva l’icona. Così, il luogo e l’immagine divennero il sacrario dove fu custodita la fedeltà di tutta la Chiesa maronita alla fede definita dal concilio di Calcedonia, che aveva proclamato la duplice natura — umana e divina — di Cristo, insieme alla maternità divina di Maria. Verità di fede che trovano espressione singolare nei dettagli iconografici che connotano l’icona. In particolare, la professione di fede sulle due nature di Cristo viene espressa dalla forma simbolica di benedizione impartita con la mano destra sia da Gesù che da Maria con tre dita unite a indicare le tre Persone di Dio, e indice e medio serrati, a indicare che Cristo è vero Dio e vero uomo. I capelli della Vergine Maria sono completamente nascosti e coperti da una fascia, secondo gli usi delle popolazioni semitiche. 

La spiritualità mariana vissuta nella Chiesa maronita, espressa nel ciclo liturgico di tutte le feste dedicate a Maria — da quella della Visitazione fino a quella dell’Assunzione — proclama sempre il mistero dell’incarnazione come sorgente di tutte le glorie della Santa Vergine. La Madre di Dio accompagna suo Figlio lungo tutto il percorso della sua opera di salvezza. Tutti i canti più cari dell’innografia maronita riecheggiano dello stupore davanti al mistero dell’incarnazione, il prodigio della salvezza e della felicità che può raggiungere ogni cuore umano attraverso l’umanità di Cristo. A Betlemme, quando nasce il Bambino annunciato dall’angelo, Maria è la prima a abbracciarlo. Lei per prima ha abbracciato Dio, abbracciando il suo bimbo appena nato, e ha «adorato colui che aveva generato». In quello sguardo, e in quell’abbraccio, c’è tutto il mistero della salvezza rivelato dall’avvenimento cristiano. Perché non basta sapere che c’è Dio, per godere di Dio. Non è la credenza in Dio a dare di per sé speranza agli uomini e alle donne reali. Non basta credere in Dio per essere felici. Bisogna abbracciarlo, come per prima fece Maria, e essere abbracciati da Lui. 

Guardando l’icona di Nostra Signora di Ilige, in questo mese di maggio, tanti cristiani maroniti potranno tornare a rivolgere a Maria i loro occhi e le loro preghiere, in questo tempo così difficile per tutte le genti che abitano il Paese dei cedri. Contemplando Colei che ha partorito Dio senza soffrire, potranno pregustare ancora una volta che la salvezza non nasce dalla fatica dell’uomo, ma viene come un dono gratuito. Il parto di Maria è il segno carnale che la salvezza non viene da noi, dal nostro sforzo. La felicità viene dalla grazia di essere amati gratuitamente, e non arriva come un effetto del travaglio, della fatica e del dolore. E se la felicità dell’uomo si è fatta incontro agli esseri umani in maniera così gratuita, non lo ha fatto non per complicarci la vita, ma per rendere semplice ai poveri e ai piccoli poter abbracciare e farsi abbracciare dal mistero di Dio, abbracciando l’umanità di Cristo. Così come fece, per prima, sua madre. 

di Gianni Valente

da L'Osservatore Romano , 5 maggio 2021

domenica 22 dicembre 2019

"La felicità a portata di mani che la possono abbracciare..." Ecco il paradiso

Nel cuore della basilica di Santa Maria Maggiore, conservate in un reliquiario di fine Settecento, ci sono cinque fragili assicelle di legno d’acero rosso. Si trovano lì da circa millequattrocento anni, cioè dall’epoca in cui si fa risalire il loro arrivo a Roma, durante il pontificato di Teodoro I (642-649), nativo di Gerusalemme. Duemila anni fa le piccole travi, davanti alle quali ogni giorno si inginocchiano a recitare una preghiera fedeli di tutto il mondo, erano incrociate e inchiodate fra di loro in modo che potessero sostenere il lieve peso di una culla di terracotta in uso in quei tempi in Palestina: secondo la tradizione esse sono proprio le reliquie della mangiatoia di Betlemme in cui Maria depose Gesù bambino dopo averlo avvolto nelle fasce (cfr. Lc 2, 7). 
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Ebbene, una particella di quegli antichi legni d’acero è appena tornata a Betlemme, in Palestina, dopo secoli di soggiorno a Santa Maria Maggiore, la “Betlemme di Roma” fatta edificare da Sisto III sul colle Esquilino. Il frammento della Sacra Culla donato da Papa Francesco alla Custodia di Terra Santa, è arrivato a Gerusalemme lo scorso 29 novembre e ha raggiunto il paese natale di Gesù nella prima domenica di Avvento. Il cardinale Stanisław Ryłko, arciprete di Santa Maria Maggiore, in un messaggio riportato pubblicamente dal nunzio apostolico in Gerusalemme e Palestina, l'arcivescovo Leopoldo Girelli, ha sottolineato come Papa Francesco accompagni questo dono «con la sua benedizione e con il fervido augurio» che la venerazione permetta ai fedeli di «accogliere con rinnovato fervore di fede e di amore il mistero che ha cambiato il corso della storia». 
Così, i pellegrini e i francescani della Custodia di Terra Santa — che sull’Altare della Mangiatoia della basilica betlemita della Natività celebrano la Messa due volte al giorno — potranno pregare di fronte al frammento della culla in cui, per usare le parole di san Tommaso nella Summa Theologiae, trovò dimora terrena la felicità degli uomini: «Ad hunc finem beatitudinis homines reducuntur per humanitatem Christi», gli uomini sono ricondotti al loro destino di felicità attraverso l’umanità di Cristo. In fondo, si può dire che proprio all’umanità di Cristo sia dedicata Santa Maria Maggiore, costruita a conclusione del concilio di Efeso, che nel 431 riconobbe Maria “madre di Dio” (Theotókos). Papa Sisto III fece realizzare all’interno della basilica una riproduzione della Grotta della Natività, facendola adornare con i frammenti provenienti dal paesino di nascita di Gesù portati a Roma dai pellegrini di ritorno dalla Terra Santa. 
Poi, a partire dal VII secolo, cioè da quando diede alloggio alle memorie più importanti dell’infanzia del Signore, la basilica incominciò a essere chiamata Sancta Maria ad Praesepe. Qui è sotto gli occhi di tutti l’umiltà di «Colui che», come scriveva Henri De Lubac, «infinito nel seno del Padre, si racchiude nel seno della Vergine o si riduce alle proporzioni di un bambino nella stalla di Betlemme». Umiltà testimoniata da quei poveri pezzi di legno in cui vagì per la prima volta la felicità dell’uomo: «Duemila anni fa», osservava il sacerdote ambrosiano don Giacomo Tantardini, «la felicità è venuta: ecco il paradiso. La felicità è venuta: non più promessa, non più indicata come termine del cammino umano. La felicità è venuta, il paradiso è venuto. È venuto nella carne così che fosse visto, così che fosse toccato, così che fosse abbracciato. Così che Agostino potesse dire: “Io sapevo che la felicità era Dio, ma non godevo di Te” — perché non si gode del sapere, si gode quando si è abbracciati. “Non godevo di Te finché umile non abbracciai il mio umile Dio Gesù” (Confessiones VII, 18, 24) […] Non Dio destino lontano, ma Dio fatto bambino, piccolissimo bambino: così il paradiso, la felicità è venuta incontro, si è fatta vicina, si è fatta a portata di occhi, a portata di cuore, a portata delle mani che la possono abbracciare. Il paradiso in terra è Lui» (G. Tantardini, L’umanità di Cristo è la nostra felicità, Roma 2011). 
Le reliquie della sacra culla si trovano nella Confessione della basilica, sotto l’altare maggiore, e sotto lo sguardo di Maria e Gesù, raffigurati nello stupendo mosaico dell’abside. 
Carlo Ossola ha spiegato come Dante abbia visto, restandone abbacinato, «il più grande trionfo di Maria che l’ultimo Medioevo le abbia consacrato: proprio poco prima dell’anno del Giubileo del 1300 (e del pellegrinaggio di Dante in Roma nell’anno ch’egli dichiara incipitario della sua Commedia) vennero ultimati i mosaici absidali di Jacopo Torriti in Santa Maria Maggiore con quel trionfale elogio dell’umano che è l’Incoronazione di Maria, sotto la quale, in asse, è raffigurato Gesù che porta teneramente tra le braccia l’animula di Maria, che confidente si posa come un’infante sul petto del Figlio». 
Così, anche da quell’immagine, scaturirono i versi iniziali del XXXIII canto della terza cantica dantesca: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d'etterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo Fattore / non disdegnò di farsi sua fattura». Insomma: ecco il Paradiso.
                                                                             di Paolo Mattei

Auguri di Santo Natale 
nella gratitudine al Dio che ha voluto partecipare nella sua carne alla storia dell'umanità 
Ora pro Siria 

sabato 12 ottobre 2019

Il 17 ottobre S.Ignazio di Antiochia, patrono della Siria, invito alla preghiera per la pace

Di fronte ai tragici fatti che segnano la sorte della Siria, e dei nostri fratelli nella fede, nel giorno della Memoria di Sant'Ignazio di Antiochia, Patrono della Siria, invitiamo tutti i credenti a un gesto di preghiera che rinnovi il grido al Signore perché in quella terra, come in tantissimi altri posti nel mondo, ritorni la pace e la possibile convivenza tra gli uomini di ogni fede. 
E perchè sia salvaguardata la presenza cristiana in queste terre benedette, certi che essa sia una sorgente di pace e benessere per tutto il Paese.
  Ora pro Siria


Preghiera e intercessione per la pace in Siria.
Dio di Compassione,
Ascolta il pianto del popolo siriano.
Conforta coloro che subiscono violenza.
Consola coloro che piangono i morti.
Converti il cuore di coloro che hanno imbracciato le armi.
E proteggi coloro che si impegnano per la pace.
Dio della speranza,
ispira i governanti a scegliere la pace piuttosto che la violenza e a cercare la riconciliazione con i nemici.
Infiamma la Chiesa Universale di compassione per il popolo siriano.
E dacci speranza per un futuro costruito sulla giustizia per tutti.
Lo chiediamo attraverso Gesù Cristo, principe della pace e luce del mondo.
Amen.

A Prayer for Peace in Syria
Almighty eternal God, source of all compassion, the promise of your mercy and saving help fills our hearts with hope. Hear the cries of the people of Syria; bring healing to those suffering from the violence, and comfort to those mourning the dead. Convert the hearts of those who have taken up arms, and strengthen the resolve of those committed to peace. O God of hope and Father of mercy, your Holy Spirit inspires us to look beyond ourselves and our own needs. Inspire leaders to choose peace over violence and to seek reconciliation with enemies. Inspire the Church around the world with compassion for the people of Syria, and fill us with hope for a future of peace built on justice for all.
We ask this through Jesus Christ, Prince of Peace and Light of the World, who lives and reigns for ever and ever. Amen.

Une prière pour la paix en Syrie

Dieu éternel et tout puissant, source de toute compassion, la promesse de ta miséricorde et de ton salut rempli nos cœurs d’espoir. Entend les pleurs des Syriens ; apporte apaisement et guérison à ceux qui souffrent de la violence, console ceux qui sont en deuil. Converti le cœur de ceux qui ont pris les armes et affermi ceux qui s’engagent pour la paix. O Dieu d’espoir et Père de pitié, que ton Esprit Saint nous inspire à regarder au-delà de nous-même et de nos propres besoins. Guide les dirigeants pour qu’ils choisissent la paix et non la violence et qu’ils œuvrent à la réconciliation entre ennemis. Suscite dans l’Eglise à travers le monde la compassion pour le peuple syrien et rempli nous d’espérance pour bâtir un futur basé sur la justice et la paix. Nous Te le demandons par Jésus Christ, Prince de Paix et Lumière du monde, qui vit et règne pour les siècles des siècles. Amen.


Papa Francesco al termine dell’Angelus del 13 ottobre 2019:
Il mio pensiero va ancora una volta al Medio Oriente. In particolare, all’amata e martoriata Siria da dove giungono nuovamente notizie drammatiche sulla sorte delle popolazioni del nord-est del Paese, costrette ad abbandonare le proprie case a causa delle azioni militari: tra queste popolazioni vi sono anche molte famiglie cristiane. A tutti gli attori coinvolti e anche alla Comunità Internazionale, per favore rinnovo l’appello ad impegnarsi con sincerità, con onestà e trasparenza sulla strada del dialogo per cercare soluzioni efficaci.


Intervista con il Nunzio apostolico, cardinale Mario Zenari

Ci sarà una Pasqua anche per la Siria


Osservatore Romano, 7 ottobre 2019

Eminenza, può farci un quadro della situazione oggi in Siria da dove continuano ad arrivare, dopo quasi nove anni, notizie di guerra?
In alcune zone della Siria non cadono più bombe però la guerra non è ancora terminata e c’è la regione del nordovest che tiene preoccupati tutti perché si sta ancora combattendo e vi sono intrappolati circa tre milioni di civili, dei quali, secondo le Nazioni Unite, un milione è costituito da bambini. Dalla fine di aprile ad oggi si parla di più di mille civili morti e di circa 600 mila sfollati. Come dicevo, se non cadono più le bombe, c’è una terribile “bomba”, la povertà, che colpisce, secondo le Nazioni Unite, l’83 per cento della popolazione costretta a vivere sotto la soglia della povertà. Sono cifre ancora molto impressionanti. Non dobbiamo dimenticare che in Siria c’è stato il disastro umanitario più grave dopo la fine della Seconda guerra mondiale: 5.900.000 sfollati interni e 5.600.000 rifugiati nei Paesi vicini. Arriviamo a circa 12 milioni su un totale che, prima del conflitto, era di 23 milioni di persone. Quindi metà della popolazione è costretta a vivere fuori dalle proprie case e dalla propria nazione. La gente è anche molto delusa perché pensava che una volta cessate di cadere le bombe, cominciasse a riprendere la vita. Invece, c’è una povertà galoppante e manca il lavoro. Proprio qualche giorno fa mi diceva un prete: «Mi ha impressionato vedere, non i soliti poveri che chiedono l’elemosina, ma gente che viveva un certo benessere e che ti chiede: “Padre, non ho da comperare il cibo”». I bisogni sono enormi e la gente manca di tutto. Si parla di un mare di sofferenza che riguarda soprattutto bambini e donne, che pagano il costo più alto di questo atroce e crudele conflitto, che ormai è al nono anno. Un settore particolarmente colpito è quello della sanità. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, alla fine del 2018, solamente il 46 per cento degli ospedali era funzionante, il che vuol dire il 54 per cento o sono completamente chiusi o sono parzialmente funzionanti. E anche qui i morti — parliamo soprattutto di anziani e bambini — per mancanza di cure sono più numerosi dei morti sotto le bombe o tra i fuochi incrociati. È così anche nel settore educativo, molto colpito: una scuola su tre non è agibile e circa due milioni di bambini in età scolare non possono frequentare la scuola.
Dal punto di vista sanitario, l’iniziativa da lei avviata tre anni fa, “Ospedali aperti’ che prevede cura gratuita ai poveri di qualunque appartenenza etnico–religiosa, che frutti sta dando?
Ho fatto il giro più volte di questi tre ospedali cattolici (due a Damasco e uno ad Aleppo n.d.r) e ho trovato persone molto riconoscenti. In modo particolare i musulmani, perché nella loro mentalità non si aspettano che un cristiano aiuti un musulmano e quindi ci sono bei gesti di riconoscenza. Gli islamici ammettono, al di là dei pregiudizi, che la Chiesa aiuta tutti. Mi sono reso conto quindi che questi ospedali hanno due scopi: curare il fisico e migliorare le relazioni sociali. Perché quello che è rovinato in Siria non sono tanto i palazzi ma il tessuto sociale: le persone non si fidano più le une delle altre. Quindi grazie a questi ospedali si raggiunge un grande risultato.
Sicuramente sulla popolazione pesano le sanzioni internazionali così come pesa l’instabilità politica. Ora si sta lavorando alla formazione di un Comitato costituzionale: potrebbe essere l’inizio di un cambiamento?
Fino a qualche giorno fa, il mio parere era che la soluzione politica fosse a un punto morto. Poi si è raggiunto questo accordo tra governo, opposizione e Nazioni Unite e finalmente, dopo mesi di stallo, è un passo incoraggiante. Naturalmente la strada è tutta in salita e purtroppo bisogna essere realisti, non pessimisti: la situazione sarà ancora molto difficile per milioni di siriani. Infatti, in Medio Oriente c’è, come si sa, un “ciclone”: la rivalità crescente tra alcuni Paesi. Secondo quanto ha detto qualche mese fa l’inviato speciale dell’Onu, Pedersen: nei cieli siriani o sul suolo siriano sono presenti cinque eserciti tra i più agguerriti del mondo, alle volte in conflitto, con la pericolosità che ne deriva. La Siria è nell’occhio di questo ciclone, è il luogo di una guerra per procura. Quindi come si potrà uscire da questa crisi? Il domani è ancora lontano. Ci sono poi le sanzioni internazionali che portano danni considerevoli. Ne menziono una: l’embargo petrolifero. C’è stato un inverno lunghissimo in Siria, pioggia e neve. Non si trovava gasolio, non si trovavano prodotti come il cherosene di cui si serve la povera gente per scaldare, con le stufette, le case. E un certo numero di persone anziane sono morte anche a causa del freddo.
In questo scenario intravede spiragli di speranza?
Questo terribile conflitto è stato definito con tante immagini. Qualcuno ha detto: è un inferno in terra. E se si guardano le atrocità commesse è così. Ricordo il sottosegretario alle questioni umanitarie dell’Onu, Mark Lowcock, che il 28 aprile 2018 a Bruxelles, diceva: «Il gender violence in Siria è stato perpetrato a livello industriale». Quindi chi dice che è un inferno in terra ha delle ragioni. Io sceglierei però un’altra immagine. Mi ha molto colpito il Papa al Colosseo, il Venerdì santo, durante la Via Crucis, quando ha parlato dei “moderni calvari”. Per me la Siria è un calvario. Però voglio sottolineare come lungo il percorso della croce di Cristo c’erano Simone di Cirene e Veronica, che ha asciugato il volto di Cristo. Io metto in evidenza queste nuove “Veroniche”, questi cirenei e questi buoni samaritani: un certo numero di loro, circa 2000, per lo più volontari, hanno perso la vita soccorrendo la malcapitata Siria. C’è da inchinarsi davanti al loro sacrificio. In queste Veroniche, in questi Cirenei, in questi buoni samaritani metto tutte le organizzazioni umanitarie e le Chiese che cercano di asciugare un volto sfigurato. Sono loro che fanno sperare. Prima o poi si uscirà da questo venerdì santo, verrà la Pasqua anche per la Siria. Tornerà a fiorire il deserto siriano con la solidarietà, e la generosità della gente, con questi semi di bontà che sono invisibili però sono lì, in mezzo al terreno pietroso: al momento opportuno con qualche pioggerellina riporteranno il verde. Ma adesso, bisogna stare vicino alla gente, sopportare con loro, coltivare la speranza, aiutare. E la gente lo apprezza molto, sia i cristiani che i musulmani. È un momento difficile per tutti. Se si guarda un lato della medaglia, c’è sconforto, pessimismo. Ma rovesciamo la medaglia: credo che questa sia un’occasione molto opportuna per la Chiesa di manifestarsi per quello che è. Non proselitismo, assolutamente, ma vicinanza e poi il Signore provvederà.
Eminenza, per i cristiani della Siria, un segno di incoraggiamento potrebbe venire dal ritorno in patria di chi è andato via. I vescovi di Aleppo lo hanno chiesto esplicitamente. Quale è oggi la situazione?
La sofferenza più grave delle Chiese non è tanto il danno delle cattedrali, ma è l’emigrazione dei cristiani: più della metà sono emigrati. E non solo è un danno per le Chiese ma per la società, perché i cristiani sono in Siria da 2000 anni e la loro è una presenza non solo di fede ma di costruzione del Paese. Pensiamo a quello che hanno fatto le Chiese, da secoli, nel campo dell’assistenza. Pensiamo alle scuole, e finanche al campo politico. Nel 1946, anno dell’indipendenza, il celebre primo ministro Faris al-Khoury era un cristiano protestante. I cristiani hanno contribuito allo sviluppo del loro Paese con la loro mentalità aperta. Per la società sono come una finestra spalancata sul mondo. Il presidente e altri capi di Stato lo riconoscono: se partono i cristiani si rischia di avere una società monoculturale, monoreligiosa. Come fermare questo esodo? La prima misura è fermare la guerra e poi fare in modo che in queste nazioni i cristiani si sentano cittadini alla pari degli altri: parità di diritti, parità di doveri, il concetto che ribadiscono le Chiese, di cittadinanza. Intanto il ritorno dei cristiani finora non si vede. In genere chi è emigrato in Paesi occidentali magari con la famiglia o con i bambini che vanno a scuola, è difficile che possa rientrare. Questa dispersione farà sì che molti, molti di questi cristiani vadano nella Chiesa maggioritaria, in genere quella latina. E i nipoti non si ricorderanno più, purtroppo, che il loro nonno era un membro di una di queste gloriose Chiese orientali. Questo crea una sofferenza di queste Chiese. Ogni partenza, per loro, è in pratica una perdita.