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martedì 2 marzo 2021

Il viaggio di Papa Francesco in Iraq

 

Tre sono gli assi principali attorno ai quali sembra ruotare questo viaggio: l'incontro con la comunità cristiana irachena; il dialogo con l'Islam, in particolare l'Islam sciita; una risposta alla crisi politica in cui l'Iraq è precipitato da decenni. 

Per aiutare i suoi lettori a comprendere queste dimensioni, la rivista Oasis ha prodotto uno speciale dossier.

Riprendiamo qui l'articolo di Maria Laura Conte sulla storia delle persecuzioni dei cristiani in Iraq.


È buio pesto a Mosul nella notte tra il 15 e 16 luglio 2014, quando d’improvviso il silenzio si rompe. Gli uomini neri dello Stato islamico, calati da Raqqa il 10 giugno, lanciano ai cristiani un ultimatum: «Convertitevi all’Islam, pagate la jizya [1] o lasciate la città senza portare nulla con voi entro il 19 luglio a mezzogiorno. Altrimenti vi aspetta la decapitazione».

Da quel momento in poi è l’inferno: è fuga per migliaia e migliaia di famiglie che si mettono in marcia verso villaggi considerati più sicuri, verso il Kurdistan. Ai checkpoint gli uomini di Isis strappano loro tutto, denaro, documenti, le chiavi di casa, perfino gli orecchini. Non risparmiano neppure i neonati, ai quali portano via il biberon di latte, lasciandoli affamati e urlanti.

Nella calura insopportabile di un’estate di sangue viene sradicato quel che restava dell’antichissima comunità caldea di Mosul. L’antica Ninive del libro di Giona, dove nel settimo secolo ebbe origine la liturgia caldea, si svuota degli ultimi quindicimila cristiani. Questo piccolo resto aveva scelto di rimanere nonostante le violenze ripetute, esacerbatesi dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, come attesta il rapimento e l’uccisione nel 2006 del vescovo caldeo mons. Farraj Rahho, per citare solo uno tra i tanti casi.

Ma quella notte di luglio la violenza conosce un’impennata: le chiese sono profanate, le croci strappate dai tetti per far posto alle bandiere nere del terrore, tutti i miscredenti cacciati. Una nuova pagina surreale, nella sua tragicità, per Mosul, dopo la caduta in sole sette ore nelle mani di poche centinaia di terroristi a fronte dei 60.000 uomini dell’esercito iracheno.

Da quel momento il terrore dilagante nella piana di Ninive genera un mare di sfollati: solo da Mosul fuggono 500.000 persone, un quarto della popolazione circa. Nel giro di poche settimane naufraga nel Kurdistan iracheno, tra Erbil, Dohuk e Zakho, un milione di persone, che si aggiungono a una popolazione di cinque milioni circa e ai 500.000 profughi dalla Siria.

Non è la prima volta nella storia che i cristiani, per sfuggire a persecuzioni e ingiustizie trovano riparo nella regione alla quale, dopo decenni di scontri con Baghdad (nei quali i cristiani stessi sono rimasti schiacciati pagando un altissimo prezzo), è stata riconosciuta l’autonomia nel 1992. Ricca di petrolio, è considerata l’area più sicura del Paese grazie alla presenza dei quasi mitologici peshmerga, oggi addestrati anche da eserciti stranieri, e nonostante le costanti tensioni con il governo federale che non ha mai sopportato le spinte indipendentiste locali.

Ma è in tutto l’Iraq che il numero degli IDPs (internal displaced people, sfollati), come li definiscono le agenzie delle Nazioni Unite, sta rasentando livelli da collasso: le violenze settarie che hanno incendiato e spaccato il Paese dopo la guerra del 2003 hanno lasciato senza un tetto due milioni di persone, per metà bambini. Si adattano per mesi a vivere in campi allestiti con tende o caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello del cuore di Erbil attorno alla parrocchia di Mar Elia) o in edifici in via di costruzione. Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in piccole casette o negli appartamenti di palazzi ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. Perché in Kurdistan l’attività edilizia paradossalmente ferve: sorprendono gli ambiziosi grattacieli incompiuti che svettano nel centro della capitale e i quartieri residenziali che si intravedono lungo la strada che collega la capitale a Dohuk. Investono qui i ricchi iracheni del Sud, così come stranieri facoltosi, tra cui i turchi, perché la zona è considerata appunto “stabile”.


Trama di destini, non masse senza nome

Finché si leggono nei rapporti delle organizzazioni umanitarie accorse sul campo, le statistiche dei rifugiati e sfollati impressionano, ma finiscono per coincidere con masse di uomini e donne senza volto, ai quali occorre procurare urgentemente enormi quantità di acqua, cibo, vestiti… Gente da organizzare e gestire con progetti specialistici, per esempio di winterizationeducationprotection, come prevede il gergo tecnico. Ma se ognuna di queste azioni è indispensabile per garantire loro la sopravvivenza, non si può arrivare a confondere con una massa impersonale quella che è una trama articolata di profili singolari e vicende uniche. Ogni storia è diversa, ha in sé dettagli particolari che concorrono a comporre quel fenomeno travolgente, dalle radici lontane, che è lo spostamento di intere comunità da Est a Ovest. Un “trasloco” che va cambiando la geografia umana dell’Iraq, dei Paesi vicini e in parte, forse, benché in modo non misurabile, di Paesi anche molto lontani, fino all’altra parte dell’Oceano Atlantico.

«Se va avanti così, in sei o sette anni non avremo più cristiani in Iraq», sostiene mons. Bashar Warda, arcivescovo caldeo di Erbil.  Ogni giorno pare che una settantina di persone lasci il paese per guadagnarsi un futuro altrove. Goccia dopo goccia, la costante partenza dei cristiani si configura come un processo inarrestabile, che ha innescato un cambiamento profondo, di ecosistema, a prescindere dalla consapevolezza o meno dei suoi protagonisti. Perché il fatto che a Mosul dal luglio 2014 non si celebri più la messa per la prima volta in quasi duemila anni di storia di presenza cristiana, non può essere tema esclusivo di quella particolare comunità o dei cristiani di qui.

L’emorragia continua che sta dissanguando il Medio Oriente, almeno da un secolo, da un lato ne cambia la composizione, privandolo di una presenza garante della sua pluralità, come scrisse già nel 2002 non un cristiano, ma un saudita, il principe Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud: «Gli arabi cristiani, in forza della loro pluralità culturale, erano e sono sempre, una sfida costante per la cultura e il pensiero. La loro presenza è una garanzia contro lo svilupparsi dell’arbitrio e dell’estremismo, e di conseguenza, di una violenza che conduce a catastrofi storiche»[2]. E dall’altra la diaspora impianta altrove comunità che custodiscono – e nessun checkpoint di terroristi glielo può sottrarre – il deposito di una tradizione millenaria. Che destino avranno loro, le loro famiglie e il loro patrimonio di cultura, tradizioni e religione? Si “integreranno” fino al punto di confondersi completamente nelle nuove società o inietteranno una differenza nei nuovi contesti? Se si entra in una chiesa a Erbil e si assiste alla messa secondo un rito rimasto intatto nei secoli, celebrato nella stessa lingua dell’apostolo Tommaso che evangelizzò queste terre, o se si ascoltano i racconti di uomini e donne che per fedeltà al loro battesimo si sono lasciati uccidere, sembra impossibile accettare che questa cultura e fede siano destinate a sbriciolarsi nell’innesto in Occidente. Eppure anche questo pericolo incombe, accanto a quello più immediatamente violento di Isis.


Quando è cominciato?

Se si volesse fissare una data di inizio per l’esodo dei cristiani mediorientali, si potrebbe risalire a un secolo fa, al 1915, data del genocidio di armeni e siriaci. Cominciarono a partire dalla Turchia, dall’Iraq e dalla Siria. Gli anni del regime baatista hanno solo aggravato la tendenza all’esodo. Secondo stime non ufficiali oggi sono circa 350-400.000 i siriaci e i caldei che vivono in Europa, in Svezia e Germania soprattutto. Il resto è disperso tra Belgio, Francia, Olanda, Austria, Scandinavia e Inghilterra. Circa 100.000 sono in Australia i cristiani che arrivano da Oriente, con qualche presenza in Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti sono 800-900.000. Ma recuperare dati certi sulla parabola demografica dei cristiani in Iraq è un’impresa. Il patriarca di Baghdad dei caldei, Louis Sako, parla di un milione e mezzo circa prima del 2003. Secondo l’ultimo censimento realizzato, che risale al 1965, i cristiani erano 250.000 circa[3], equivalenti al 3% della popolazione. Per quanto riguarda l’oggi, secondo il patriarca caldeo i cristiani si aggirano tra i 100.000 e i 400.000.


Non solo cristiani i perseguitati

Sebbene i numeri della cancellazione dei cristiani siano i più imponenti, va sempre ricordato che non sono solo cristiane le vittime della violenza praticata da Isis. Le minoranze come gli yazidi, i turcomanni, i mandei, sono state tutte prese di mira dai jihadisti nel loro disegno di purificazione dello Stato dalla presenza dei “miscredenti”. Gli yazidi pare fossero 500.000 in Iraq, la maggioranza residente attorno a Sinjar. Oggi almeno 400.000 di loro sono sfollati. Mentre sono 3.000 circa le loro donne rapite da Isis, delle quali solo 240 sono riuscite a tornare libere. Molte sono rimaste incinta dopo gli abusi subiti, e hanno scelto nella maggior parte dei casi di abortire. Una strage di innocenti dentro un’altra strage. Chi è riuscita a scappare dalla morsa nera ha raccontato dell’assurda violenza e dell’abbrutimento di quegli uomini. Come Amsha, 19 anni, il viso pallido stretto da un velo cupo, lo sguardo basso, le mani inquiete a tranquillizzare il suo bambino aggrappato alla gonna. Si è rifugiata in una località nel nord del Kurdistan, Sharia, insieme ai suoi famigliari e ai suoi due bambini, il primo di due anni e il secondo appena nato, in una casetta in costruzione, dove l’odore di una convivenza sovraffollata si mescola a quello del cibo in cottura e della campagna brulla. Fu catturata e assegnata come schiava a un jihadista dello Stato islamico originario di Falluja, stabilitosi a Mosul con moglie e figli. È rimasta in quella casa per alcune settimane, chiusa in una stanza con il figlio. Finché una notte, spinta dal pianto disperato del bimbo affamato, è riuscita a scappare e, dopo ore di marcia nella notte, a trovare aiuto. Il suo racconto dei giorni di prigionia è molto asciutto: Amsha non riesce a offrire molti dettagli, ma non può dimenticare che tre delle sue compagne per la disperazione si sono tagliate le vene, e che del marito non ha più notizie dal giorno del rapimento.


In attesa del VISA

Di quella trama sottile che lega milioni di sfollati in un destino assurdo fanno parte anche Foco e sua sorella Lary, chiamati così dai genitori legati al movimento dei Focolari. Diciott’anni, esile, lo sguardo di pece, durante la permanenza provvisoria a Dohuk, Foco dava una mano agli operatori della Caritas che si occupa là, come nel resto del Paese, almeno fin dove può spingersi, delle migliaia e migliaia di iracheni sfollati, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa: «Avevamo una profumeria a Qaraqosh – racconta Foco – un bel negozio. Quando abbiamo capito che stavano per arrivare i terroristi, il 6 agosto alle 11 siamo scappati. Tutti i cristiani del mio villaggio sono fuggiti. Ora siamo qui, in attesa del permesso di entrare in Francia, dove vive una zia. Per ricominciare da capo». “In attesa di ripartire”: la fuga, decisa quando ormai il tam-tam confermava l’avanzata inarrestabile degli assassini e l’abbandono inaspettato della città da parte delle forze curde che dovevano difenderla, approda in prima battuta in Kurdistan. Ma la lunga sosta in quel luogo sospeso nel tempo e nello spazio, qual è un campo di profughi, non spegne il desiderio vitale di chi è stato privato di tutto e si sente braccato, né rimuove il bisogno di ri-partenza, di lasciarsi riafferrare da una speranza di ripresa.

Il visto alla fine è arrivato, a fine febbraio, e il giovane di Qaraqosh è partito con tutta la famiglia per Lione. La foto che ha postato su Facebook con poche valigie all’aeroporto di Erbil prima del decollo è la traccia di quel viaggio che conduce lui e migliaia di altri dagli antichi villaggi iracheni verso l’Europa. Tornerà un giorno alla sua casa? Ci sarà una nuova chance per lui in Iraq? Intanto a Lione ha ricominciato ad andare a scuola.


L’addio dei Vescovi

Lungo la direttrice da Oriente a Occidente si colloca anche la vicenda di mons. Amel Shamon Nona, già vescovo di Mosul. Papa Francesco l’ha nominato vescovo della comunità di Sidney, che conta circa 50.000 fedeli, al posto di mons. Djibrail Kassab, che a sua volta lasciò Bassora nel 2006. La città era stata abbandonata in massa dai cristiani per il massacro sistematico perpetrato contro di loro, quella volta da milizie sciite. «Quando mi hanno detto “o ti converti o paghi la jizya o te ne vai”, io ho scelto di andarmene – spiega mons. Nona, a febbraio ancora a Erbil. Basta, era arrivato il momento di dire basta: la misura era stata superata. Da 1400 anni i cristiani in queste terre vivono pagando il prezzo della loro fede. Ci si sorprende di Isis come di un fenomeno recente, ma noi a Mosul lo conoscevamo almeno dal 2003: la vita per i cristiani era drammaticamente peggiorata. Quando uscivano la mattina per andare al lavoro, non sapevano se sarebbero ritornati la sera. Chi aveva attività commerciali doveva pagare la jizya e riceveva una ricevuta con la scritta Stato islamico. Dopo la morte del mio amico e predecessore, quando mi muovevo cercavo di fare percorsi sempre diversi, per ridurre il pericolo di attentati».

Nona è rimasto dall’arcivescovo di Erbil per qualche mese, prima del trasferimento in Australia. Anche lui “ospite” del quartiere cristiano, Ankawa, che tra giugno e agosto 2014 ha visto più che raddoppiata la sua popolazione: da 40.000 gli abitanti sono passati a 80-90.000. Non è mancata la solidarietà immediata di tanti che hanno ospitato sotto il loro tetto per mesi famiglie intere, mentre la Caritas irachena e le diocesi hanno moltiplicato gli sforzi per rispondere ai bisogni di persone sconosciute, strappate dal ciglio della strada. 

«Vogliamo aiutarli non solo assicurando cibo, coperte, cure mediche, ma promuovendo la loro dignità integrale – spiega mons. Warda. Desideriamo “aiutarli ad aiutarsi”. La sfida che incombe prepotente è l’emigrazione verso la Turchia, il Libano, la Giordania, prime tappe di un viaggio che spesso ha destinazioni ancora più remote. Se non possiamo arginarla del tutto, almeno possiamo tentare di contenerla. Per esempio offrendo un contributo economico per pagare l’affitto di una casa qui. Erbil non è il loro villaggio, ma almeno non è straniera. L’Europa, l’America sembrano promettere molto, quanto le immagini da qui, ma poi cosa troverà lì davvero, chi parte esattamente non lo sa. Magari solo porte chiuse e ancora la strada». Un progetto in controtendenza per tutelare la ricchezza di una stoffa umana variegata come quella del popolo iracheno: «Per l’Occidente può essere facile accogliere cento o mille profughi – osserva il patriarca Sako – il punto è come aiutare coloro che vogliono rimanere in patria. Tutti parlano di democrazia, di riforme, di cambiamento. Ma prima di tutto ci vuole un’educazione nuova, che sradichi fin dai suoi primi germogli la mentalità del jihadista. Solo così si può pensare a un futuro per i cristiani qui. E anche a un futuro sicuro per l’Occidente. L’islamizzazione radicale è l’obiettivo di chi non vuole i cristiani qui e voi in Occidente non li conoscete, non sapete cosa intendono dire quando parlano».


Senza scarpe nel fango

Non c’è spazio per le illusioni quando si cammina tra tende di sfollati e bagni comuni provisori, si parla con bambini che giocano nel fango nel pieno dell’inverno e non hanno le scarpe, o si incrocia lo sguardo con chi è scampato alla morte, è stato derubato di tutte le sue cose e dei suoi progetti, e vive appeso a un filo. «Nella migliore delle ipotesi – osserva ancora mons. Warda –, se anche lo Stato islamico fosse sconfitto e i suoi miliziani eliminati, che cosa potrebbe trovare chi si azzardasse a rientrare in quei villaggi? Case distrutte, terreni minati e soprattutto il tessuto di fiducia reciproca tra gli abitanti stracciato».

Tra quanti sono stati cacciati dai loro villaggi c’è anche chi non vuole abbassare la testa e cerca di costituire delle milizie cristiane, come Yoseph Yacoub Methy, del Bethnarin Patriotic Party: «Nessuno prende le nostre difese fino in fondo, l’esercito iracheno e i peshmerga curdi hanno già dimostrato nella piana di Ninive che sanno abbandonare i cristiani nella mani di Isis senza muovere un dito. Dobbiamo imparare a difenderci da soli». Un’impresa quasi impossibile considerata la situazione di frammentazione dei pochi cristiani nel Paese (divisi politicamente in oltre sette partiti), a fronte di nemici numerosi e molto ben armati.

Dove si è installata la furia diabolica di Isis, casi come quello di Mahmad al-Assali, professore all’università di Mosul ucciso per aver contestato l’espulsione dei cristiani e testimonianza potente di quale tipo di coesistenza poteva essere possibile, sono rimasti rari. Se per pavidità o calcolo, resterà da decifrare. Più si affonda nella complessa realtà e storia irachena, più diventano martellanti due interrogativi: perché tanto odio nei confronti dei cristiani? E perché provare ad aiutarli a restare? Un principio di risposta si può attingere da una riflessione del patriarca Sako: «Il nostro problema è che siamo assimilati all’Occidente. E molti musulmani pensano che di là vengano tutti i loro mali: l’Occidente sostiene Israele, l’Occidente attacca i musulmani e sfrutta il petrolio… Siccome considerano l’Occidente cristiano, la sua colpa ricade anche su di noi. I membri dello Stato islamico in particolare ritengono che i cristiani con la loro libertà, i loro costumi diano fastidio. Guardate le giovani cristiane in jeans e senza velo! In questo presunto califfato una cristiana libera, vestita diversamente, obbliga le altre donne a porsi delle domande. I cristiani con la loro differenza seminano il dubbio»[4]. Sono insopportabili, vanno eliminati.

Insopportabili come la croce, che nelle chiese caldee è senza il Cristo crocifisso, solo legno. A sottolineare che Gesù ha sconfitto la morte, la violenza, la spada, ed è risorto. La croce dei caldei è una croce gloriosa, la certezza alla quale non smettono di restare aggrappati.

[1] La jizya, l’imposta di “protezione” prevista dalla sharî‘a, pare si aggirasse intorno ai 450 dollari, cifra esorbitante che non sarebbe stata comunque sufficiente a salvare la vita di chi non si convertiva, tanto più in uno Stato che non può accettare al suo interno la presenza di “miscredenti”.

[2] Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud, Arabes chrétiens, ne partez pas !, «an-Nahar», 28 marzo-3 aprile 2002, p. 28.

[3] Andrea Pacini (a cura di), Comunità cristiane nell’Islam arabo, Fondazione Agnelli, Torino 1996, p. 69.

[4] Louis Sako, « Ne nous oubliez pas ». Le SOS du patriarche des chrétiens d’Irak, Bayard, Paris 2015, p. 34.

Iraq

venerdì 23 novembre 2018

Dietro alla crisi del Golfo si cela anche una spaccatura religiosa tutta interna al mondo sunnita


di Michele Brignone

Oltre ad aver ridisegnato gli equilibri geo-politici mediorientali, la crisi che da un anno oppone il Qatar e la coalizione composta da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Bahrein ha ratificato la frattura politico-religiosa, tutta interna al mondo sunnita, tra un campo islamista sponsorizzato da Doha e un campo anti-islamista sostenuto dagli Stati del quartetto.

Una relazione complicata
   Il conflitto attuale è l’ultimo capitolo nella storia della complicata relazione triangolare tra lo Stato egiziano, i Fratelli musulmani e i Paesi del Golfo. Tutto cominciò negli anni ’50, quando molti membri della Fratellanza lasciarono l’Egitto per sfuggire alla repressione nasserista, trovando rifugio nel Golfo e in particolare in Arabia Saudita. Fino all’inizio degli anni ’90, l’incontro tra gli islamisti e l’Arabia Saudita avvenne sotto il segno della cooperazione: i Fratelli musulmani furono considerati un alleato naturale contro i movimenti arabi rivoluzionari e contribuirono ad accrescere la legittimità pan-islamica di Riyadh. Fu in questo periodo che dall’ibridazione culturale e religiosa tra le idee della Fratellanza e il wahhabismo saudita nacque il movimento della Sahwa islāmiyya (il Risveglio islamico). Il sodalizio si ruppe con la guerra del Golfo del 1990-1991, quando per liberare il Kuwait occupato dall’Iraq di Saddam Hussein la monarchia saudita permise alle truppe statunitensi di stazionare sul proprio territorio, scatenando l’indignazione islamista.
Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno poi allargato ulteriormente il fossato: mentre i Fratelli musulmani e altri movimenti islamisti, sostenuti dal Qatar e dalla Turchia, erano impegnati a creare un nuovo ordine politico mediorientale, l’Arabia Saudita e gli Emirati intervenivano per ripristinare lo status quo, in particolare appoggiando l’Egitto del generale al-Sisi.

Critiche e accuse incrociate
   Dopo la rottura del 2017, si sono moltiplicate accuse, analisi critiche, e prese di distanza incrociate da parte di politici, intellettuali e chierici dei due campi. Il fronte pro-islamista e filo-Qatar accusa lo schieramento opposto di aver tradito l’Islam, cedendo al secolarismo occidentale. Per esempio il marocchino Ahmad al-Raysūnī, principale ideologo del movimento Unicità e Riforma (MUR) e vice-presidente dell’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, nell’ottobre del 2017 ha rimproverato all’Islam sauditadi essere passato «dalla fioritura alla decadenza». Sempre nell’autunno del 2017, dalle colonne del quotidiano qatarino al-Watan, il giornalista di al-Jazeera Ahmad Mansūr ha imputato a Emirati e Arabia Saudita di voler deliberatamente secolarizzare le società islamiche. In una serie di articoli pubblicati sul quotidiano digitale filo-qatarino Arabi21, Soumaya Ghannouchi, figlia del fondatore e leader del partito islamista tunisino Ennahda, ha descritto invece il conflitto attuale come una battaglia tra un Islam democratico e liberale e un autoritarismo che in passato si è servito della religione ma che oggi è diventato laicista.
 Il fronte anti-islamista ascrive invece la violenza e il caos che perturbano le società musulmane all’influenza nefasta dei Fratelli musulmani. Ad esempio il principe ereditario saudita, Muhammad bin Salman, che ha promesso di “riportare” l’Arabia Saudita alla “moderazione” degli anni precedenti al 1979, attribuisce l’estremismo religioso presente nel Regno alle infiltrazioni della Fratellanza, in particolare nel sistema educativo saudita.

L’Islam emiratino: tra tradizione e pensiero critico
   Al di là della discutibile narrazione storica proposta da MBS, il suo progetto di riforma dell’Islam rimane molto vago. La sua preoccupazione non è tanto una riforma religiosa, quanto un Islam che non intralci il processo di modernizzazione del Paese, non si trasformi in una forma di opposizione politica e non comprometta la reputazione internazionale dell’Arabia Saudita. È per questo che la vera alternativa all’interpretazione islamista non è l’Islam che, chissà quando chissà se, nascerà in Arabia Saudita, ma quello che già oggi viene promosso dagli Emirati. Questi ultimi, a differenza dell’Arabia Saudita e del Qatar, non aderiscono alla dottrina wahhabita, ma alla scuola malikita. Allo stesso tempo però, gli Emirati non dispongono di istituzioni islamiche tradizionali attraverso le quali veicolare il proprio messaggio religioso. La loro politica islamica si è così tradotta nel patrocinio di nuove istituzioni, nominalmente indipendenti, guidate da eminenti personalità del mondo sunnita.  Fra queste spiccano il Consiglio dei Saggi Musulmani e il Forum per la Promozione della Pace nelle Società Musulmane, nate entrambe ad Abu Dhabi nel 2014. Il Consiglio, che riunisce ulema di tutto il mondo, è presieduto dal Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyib, e rappresenta una risposta all’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, una rete di esperti religiosi e intellettuali di orientamento islamista, molto vicina al Qatar, creata e presieduta dal “global mufti” Yūsif al-Qaradāwī. Il Forum per la Promozione della Pace è invece guidato dallo shaykh di origine mauritana ‘Abdallāh Bin Bayyah, che fino al 2013 faceva parte dell’Unione mondiale degli Ulema. Queste due istituzioni sono espressione di un Islam legato alle scuole giuridiche e teologiche tradizionali e alla spiritualità sufi, impegnato nel dialogo interreligioso e interculturale e decisamente avverso alle interpretazioni politiche e violente. 
 Tuttavia, l’azione degli Emirati non punta soltanto nella direzione di una religiosità neo-tradizionale: da qualche tempo, ospite fisso del canale Abu Dhabi TV è Muhammad Shahrūr, intellettuale siriano impegnato in un’esegesi rinnovata del Corano, che, quando in Tunisia si è iniziato a dibattere del superamento della disparità successoria tra uomo e donna, si è trovato sul fronte opposto a quello dello shaykh al-Tayyib. Secondo un’inchiesta pubblicata nel luglio del 2017 sul sito di al-Jazeera, gli Emirati sarebbero anche i principali ideatori e finanziatori di Mu’minūn bilā Hudūd (“Credenti senza frontiere”), una Fondazione la cui sede principale è a Rabat e a cui partecipano intellettuali di tutto il mondo arabo. Attraverso un’impressionante mole di pubblicazioni ed eventi, Mu’minūn bilā Hudūd promuove un pensiero critico sulla tradizione islamica e sul rapporto tra Islam e spazio pubblico, dando voce a quei “nuovi pensatori” che da alcuni decenni portano avanti una rilettura della rivelazione attraverso gli strumenti offerti dalla critica testuale moderna. Cura per esempio la pubblicazione dell’opera omnia dello studioso egiziano Nasr Hāmid Abū Zayd, noto per la sua ermeneutica storica del testo sacro islamico.

The Koran (photo: dpa)Due modelli per l’Islam sunnita
   Il Qatar dell’emiro Tamīm e gli Emirati dell’attivissimo erede al trono di Abu Dhabi Muhammad bin Zāyid sono così l’emblema delle due grandi interpretazioni che si contendono oggi la scena sunnita. Da una parte una lettura politica dell’Islam, fondata sulla critica all’ordine esistente e ai regimi autoritari, attenta alla giustizia sociale e fautrice di un progetto di reislamizzazione delle società e di istituzione di regimi “islamo-democratici”, sulla falsariga dell’esperienza, perlopiù fallimentare, tentata dopo le rivolte del 2011 in Tunisia ed Egitto. Dall’altra un Islam incentrato sulla spiritualità personale, ostile alle interpretazioni violente, presente sulla scena pubblica ma poco interessato a interferire con le scelte politiche ed economiche dei governanti, anche a costo di chiudere un occhio sugli abusi e sulle ingiustizie commessi da questi ultimi.
   È interessante notare che, sebbene questa alternativa percorra oggi molte società musulmane, essa non sia necessariamente destinata a produrre conflitti laceranti. Paesi come la Tunisia e il Marocco, in cui il processo di costruzione democratica continua ad avanzare, sono anche quelli che hanno impedito all’islamismo di egemonizzare la sfera religiosa, ma senza escluderlo dallo spazio politico e dalla società.

mercoledì 21 maggio 2014

VERSO IL VIAGGIO DEL PAPA IN TERRASANTA - 3

"Da lui ci aspettiamo parole di amicizia, dialogo, convivenza con i cittadini musulmani". L'incombente dramma siriano.

















Intervista a Mons. Maroun Lahham, Vicario del Patriarca di Gerusalemme dei Latini per la Giordania, a cura di Maria Laura Conte

OASIS, 19 maggio 2014

Un unico pellegrinaggio, ma con tappe in contesti diversi. Quali gli aspetti salienti?
«La visita si svilupperà in tre tappe, in Giordania, Palestina e Israele, che si presentano come situazioni completamente diverse. Il papa in Giordania incontrerà una comunità di cristiani felici, che possono vivere e praticare liberamente la loro fede, senza problemi di persecuzione. Prevediamo circa 40.0000 persone alla messa ad Amman e puntiamo alla massima riuscita. In Israele invece ultimamente si ripetono attacchi a chiese, conventi, moschee, da parte di alcuni fondamentalisti ebraici che, quasi ogni due-tre giorni, imbrattano con scritte offensive e minacciose edifici cristiani o musulmani. In particolare scrivono uno slogan: “pagare il prezzo”, come dire: “ci avete perseguitato nel passato, ora dovete pagare”. Sono attacchi dolorosi, ma non si può parlare di persecuzione di matrice religiosa. Le autorità fermano alcuni di questi fanatici, ma non con un’azione che li fermi definitivamente. In Palestina si risente della pesante situazione dei rapporti irrisolti con Israele, una sofferenza che si protrae da decenni ormai».

In particolare i giordani cosa si aspettano dall’incontro con il Papa?
«Per la Giordania ci aspettiamo parole di fede e di speranza, come quelle che lui solo sa dare. In Giordania tutti, il re e la regina, i principi e le principesse vogliono vedere questo papa che ha travolto il mondo. Da lui ci aspettiamo parole di amicizia, dialogo, convivenza con i cittadini musulmani. E di incoraggiamento per gli ammalati che incontrerà al sito del battesimo. A proposito dei rapporti tra la Palestina e Israele, ci auguriamo che dica parole forti di pace, giustizia e dialogo. Soprattutto ora che il processo di pace si è bloccato, gli americani se ne sono lavati le mani e hanno lasciato una situazione di stallo, urgono parole di riconciliazione. Papa Francesco, grazie al lavoro costante dei nunzi, conosce bene la realtà qui. L’assemblea degli ordinari cattolici ha già preparato un’ampia documentazione. Il papa non arriverà impreparato.

Come è stato guardato papa Francesco da parte dei musulmani in questo primo anno?
«Le richieste pervenute da parte del re, dei principi e delle principesse, le oltre 1300 richieste da parte delle ambasciate musulmane, sono segni concreti del fatto che tutti vogliono toccare questo papa, percepito molto molto molto bene. Ad oggi ancora Francesco non ha avuto modo di parlare dell’Islam, ma quello che tocca le persone non sono le parole, sono i gesti. La gente non ha bisogno di parole, ma di gesti. Quando Francesco ha abbracciato l’ammalato sfigurato a Roma, ha compiuto un semplice gesto che è arrivato a tutti i cuori. Tutto il mondo è rimasto colpito. La sua semplicità, i suoi gesti, la sua umiltà toccano tutti, anche i musulmani. Anche se non ha ancora scritto un’enciclica sull’Islam».

Anche se non farà una sosta in Siria, questo Paese così vicino sarà di fatto presente, incombente…
«Il papa ha pianto quando ha visto le foto dei cristiani crocifissi in Siria. Il Papa ha parlato del conflitto siriano come mai prima un papa ha parlato. Ha usato l’espressione “la mia amata Siria”. Solo che anche se i papi parlano, i politici restano sulle loro posizioni. Ricordo quando Giovanni Paolo II scrisse a Saddam e Bush supplicandoli di fermarsi. Ricordo che la Repubblica titolò “Il papa spera e Bush spara”. E nessuno ascoltò il papa polacco. Io spero e prego che questa crisi si arresti. Non credo che se Francesco proponesse un’altra giornata di preghiera e digiuno, la situazione cambierebbe. Quello che cambia ora è che l’esercito di Asad sta recuperando terreno, Homs è stata liberata dalle milizie. Entro due mesi l’esercito nazionale recupererà le aree perdute e poi ci saranno le elezioni di giugno, più o meno serie. Penso che la soluzione politica, di cui alcuni parlano, non sia realizzabile, perché l’esercito avrà la meglio e le milizie dovranno andarsene. Non vedo una soluzione politica, no, vedo solo quella militare al momento».

Il tema cristiani orientali e “protezione” resta un tema sensibile. Come lo interpreta?
«Quando sei una minoranza, vai dalla maggioranza a chiedere una protezione. Si chiama psicologia della minoranza. I cristiani vivevano serenamente in Siria e Iraq. Dopo l’Iraq l’alternativa proposta per la Siria, quell’al-Qaida che gioca al pallone con le teste dei cristiani uccisi, si pone come un’alternativa terribile. Penso che i cristiani in Siria abbiano davanti due alternative: o Asad com’è o i fanatici. Chi sarà eletto presidente dovrà aver capito cos’è successo in Siria, e quindi dovrà aprire porte e finestre, avere a cuore la libertà, la giustizia e il lavoro. Non si può andare avanti come prima».

Ma chi vince sul campo la guerra, non diventa ancor più prepotente?
«Un po’ di cuore alla fine lo deve avere chi vince. Sapere che ci sono stati 150.000 morti in questa crisi, deve indurre a riflettere chi governa. Penso. Almeno, io prego per questo. Questa è la mia personalissima opinione».

Questo papa come può relazionarsi con i musulmani per avere un rapporto reale?
«In Terra Santa tutto è complicato. Bisogna far attenzione a tante sfumature.
Ma penso che l’Islam fanatico, con il fallimento politico di Egitto e Tunisia, ora sia portato a essere più ragionevole. Penso che l’Islam moderato, come quello giordano e tunisino, si intenda facilmente con papa Francesco, perché non ha bisogno di tanti discorsi. Noi orientali siamo più toccati dai sentimenti, che non dai ragionamenti scolastici. A noi un gesto, un abbraccio, un sorriso, basta».

Si parla di una visita storica. Che ne pensa?
«Sarà una grande festa di popolo in Giordania».

http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/cristiani-nel-mondo-musulmano/2014/05/19/papa-francesco-si-intender%C3%A0-bene-con-gli-orientali


I profughi siriani aspettano Papa Francesco: sperano che il mondo si ricordi di loro



Agenzia Fides 21/5/2014


Una profuga siriana musulmana proveniente da Homs e un rifugiato cristiano iracheno racconteranno le loro storie cariche di sofferenza e fatica a Papa Francesco, nell'incontro che il Vescovo di Roma avrà con rifugiati, malati e disabili a Betania oltre il Giordano, durante il suo imminente pellegrinaggio in Terra Santa. Lo riferisce all'Agenzia Fides Wael Suleiman, direttore di Caritas Giordania. L'incontro con Papa Francesco si svolgerà nella chiesa – non ancora ultimata né consacrata – che sorge presso il sito del Battesimo, il luogo dove secondo la tradizione Gesù è andato a farsi battezzare da Giovanni Battista. 
Tra i più di quattrocento presenti, i rifugiati siriani e iracheni – sia cristiani che musulmani - ospitati nel Regno Hascemita saranno almeno cinquanta, e offriranno in dono al Pontefice alcune opere d'artigianato confezionate da alcuni di loro.
“I rifugiati siriani e iracheni” spiega Suleiman attendono già pieni di speranza e trepidazione la visita del Papa: tra gli iracheni, alcuni vivono la condizione del rifugiato da più di vent'anni. Tutti si aspettano che il mondo si ricordi di loro, e cambi davvero qualcosa, nell'orizzonte incerto delle loro vite ferite. 


«Ma Dio c'è ancora?»: la domanda dei profughi siriani al Papa



Vaticaninsider, 21 maggio 2014
di Giorgio Bernardelli



.... «Quanti sono i profughi siriani in Giordania? Le cifre del governo parlano ormai di 1.350.000 persone - ci risponde Suleiman - Ma non potete capire fino in fondo che cosa significhi per noi giordani questa storia se non tenete presente anche tutto il resto. Perché nel mio Paese prima erano già arrivati i profughi palestinesi nel 1967. Poi è stata la volta dei libanesi negli anni Ottanta e degli iracheni negli anni Novanta. E lo sapete che negli ultimi due anni anche gli egiziani con visto di lavoro sono raddoppiati? Sì, c'era un accordo tra i nostri due Paesi, così molti di quelli che sono scappati da Il Cairo a causa delle violenze sono venuti comunque qui».

Anche per questo nella delegazione di circa quattrocento persone che incontreranno il Papa a Betania Oltre il Giordano - il sito archeologico dove si ricorda il battesimo di Gesù - ci saranno anche i poveri e i disabili della Giordania. È infatti quasi impossibile, ormai, tracciare dei confini tra le diverse sofferenze: «Si dice: voi giordani non avete avuto la guerra, ed è vero - continua ancora il direttore di Caritas Giordania - Ma tutte le devastazioni create dai conflitti nei Paesi vicini hanno avuto ripercussioni pesanti qui da noi. Penso per esempio alle scuole dove oggi abbiamo cinquanta alunni per classe o alle difficoltà enormi a garantire l'acqua o l'elettricità per tutti. Anche la Giordania sta soffrendo. E ci chiediamo: qual è il futuro del nostro Paese?».

Anche per questo a Betania Oltre il Giordano si attende dal Papa soprattutto una parola di speranza. L'incontro con i poveri avverrà in una chiesa che è ancora un cantiere: in questo sito che il regno di Giordania ha voluto valorizzare per i pellegrinaggi cristiani, concedendo a ogni confessione la possibilità di costruire una nuova chiesa, quella latina - la cui prima pietra fu posta da Benedetto XVI nel 2009 - è ferma alla struttura muraria essenziale. Già nel mese di gennaio, però, il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha presieduto qui la liturgia dell'annuale pellegrinaggio al Giordano dei cristiani locali nella festa del Battesimo di Gesù. Un cantiere che probabilmente diventerà un simbolo anche della ricostruzione umana che i poveri e i profughi cercano oggi in questa durissima periferia del mondo.
«Tanti tra i cristiani della Siria che accogliamo qui ci chiedono: “Ma Dio c'è ancora?” - racconta Suleiman - È una domanda in cui c'è tutta la loro disperazione. E anche la nostra fatica oggi nel dare una risposta».

http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/francesco-terra-santa-34235/