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sabato 21 novembre 2015

La risposta al terrore è la santità e la fede: fra Ibrahim e padre Mourad, due esempi

La bomba durante la messa, le ostie macchiate di sangue, la fede che resiste. 

IL FOGLIO, 21 novembre 2015
di Matteo Matzuzzi




 Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo. E' stato un miracolo, c' è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell' edificio, fatto di semplici tegole d' argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. 
Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d'Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas - partita da una base di lancio per missili - ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. 

Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: "I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane". Basta guardare la chiesa per capire subito che l' obiettivo non era stato scelto a caso: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto". Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: "La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l'esplosione è avvenuta proprio nell' ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45". Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: "Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L' avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l'edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva". La gente gridava, "io ho fatto alcuni passi verso l' altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani", ma subito "sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. 
Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c' erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti". 
La memoria, poi, va ineluttabilmente sull' immagine che più d' ogni parola fotografa la portata della tragedia: "In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza". Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, "pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco". La gente, in quei momenti, era terrorizzata, non sapeva che fare: "Ho invitato i fedeli rimasti a uscire fuori nel giardino e lì ho continuato la distribuzione della santa comunione. Abbiamo recitato un Pater, Ave, Gloria come ringraziamento al Signore e a sua madre Maria, concludendo con la benedizione solenne". 
E' questo che sorprende nelle parole del parroco di Aleppo, la cui serenità - nonostante l'orrore della guerra vissuta giorno dopo giorno appena fuori la porta del monastero - è percepibile anche al telefono, nonostante la linea spesso disturbata. Una bombola di gas lanciata sulla chiesa, danni ingenti, uomini e donne sconvolti, eppure con il tempo di ringraziare Dio. E' la prospettiva a essere diversa rispetto a quella propria dell' uomo occidentale, che guarda con distacco quanto avviene da anni nel vicino oriente, avviluppato in lotte intestine che, come la tela di Penelope, paiono non avere mai fine. 
Padre Ibrahim lo sa e spiega cosa porti a lodare Dio tra la polvere e i frammenti di vetro sparsi qua e là: "Il male pianificato contro di noi era enorme. Se solo il grande lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso in un colpo solo una decina di persone raccolte lì sotto al momento della comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, ha ridimensionato questo male, indirizzandolo sulle sole pietre, mentre noi tutti siamo stati salvati. Egli si è glorificato in mezzo al male dandoci, per l' ennesima volta, un segno del suo amore provvidente. Così, invece dei lamenti e delle grida di spavento e di terrore, le nostre bocche hanno innalzato a Lui un inno di ringraziamento ricolmo d'amore e di gratitudine". 

Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell' ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: "Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell' indomani mattina", dice padre Ibrahim.
 E infatti, il giorno dopo alle 7.30 "ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. 
La giornata è proseguita con l' arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l' evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva". Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato.
 "Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt' altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa". 
Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall' attualità e il senso più profondo della fede cristiana: "Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura". 
La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, "il giorno della bomba". Ricorda che poco prima dell'attacco "avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno". 
E' calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. "Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì - dice senza tradire incertezze nella voce - assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l' intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?". 
La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l'ha assicurato Cristo, e tanto basta. E' questa speranza a fortificare l'animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. "Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell'odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione", dice padre Ibrahim. 

Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: "Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all' altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato 'battezzato' ed è diventato simbolo dell' amore che perdona e dà vita". 
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l' unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, "poiché i miliziani dello Stato islamico l' avevano interdetta all' esercito regolare". Al mercato non si trovava più nulla: "Non c' era gasolio, carburante, gas", dice il nostro interlocutore. "Non c' erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po' di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza - ma con un grande sense of humour, diceva 'siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe'. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e - ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte - come si potrebbe pagarlo? Non c' era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato". La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti". 
L'impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: "Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione". Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini "perché si sentono minacciati dall' avanzata da sud dell' esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi". Manca acqua ed elettricità, non c' è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. 
Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d'occidente che "hanno bisogno di svegliarsi". Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l' immagine del "gigante addormentato" per rappresentare i credenti europei: "Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall' acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E' un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede". Che fare, dunque? "L' occidente dovrebbe tornare all' essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve". 
In concreto, si tratta di "vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all' essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo". 
E', sostiene padre Ibrahim, "purificata". "E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito".

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/siria-ibrahim-alsabagh-parroco-ad.html


Padre Mourad: Nelle mani dello Stato islamico ho avuto compassione dei miei rapitori

AsiaNews, 20 novembre 2015


 “Questa grazia mi è stata accordata per essere di conforto a un gran numero di persone”. A raccontarlo ad AsiaNews è p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica. Di passaggio a Beirut, lo abbiamo incontrato nei saloni della chiesa di Nostra Signora dell’Annunciazione, a Beirut. Priore del monastero di Mar Elian e dei fedeli del villaggio di Qaryatayn, non lontano da Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), il 21 maggio 2015. Egli è rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare, il 10 ottobre, in quello che noi siamo soliti chiamare “il mondo libero”.

Perseguitato, minacciato, sottoposto a pressioni continue perché si convertisse all’islam, egli è stato minacciato a più riprese di venire decapitato, frustato in una occasione e, il giorno successivo, fatto oggetto di una finta esecuzione. Confinato in una stanza da bagno rischiarata solo da un lucernario piazzato in alto, con un seminarista ad assisterlo, ridotto a un regime forzato di riso e acqua, distribuiti due volte al giorno, senza elettricità né orologio, tagliato fuori in tutto dal mondo esterno, egli è riuscito a rimanere comunque vigile e non ha mai vista una sola volta scalfita la sua fede. Al contrario.
La grazia, o meglio il miracolo di cui parla p. Mourad è di essere rimasto vivo, di non aver rinnegato la sua fede, di aver ritrovato la libertà. “La prima settimana è stata la più difficile” racconta. “Dopo avermi tenuto per qualche giorno all’interno di una macchina, la domenica di Pentecoste mi hanno portato a Raqqa. Ho vissuto questi primi giorni di prigionia diviso fra la paura, la collera e la vergogna”.
La grande svolta nella sua prigionia è coincisa, secondo p. Jacques, con l’ingresso nella sua cella, l’ottavo giorno, di un uomo vestito di nero, con il viso mascherato, come quelli che compaiono nei video delle esecuzioni resi celebri da Daesh. La mia ora è arrivata, si è detto, in preda al terrore. Ma, al contrario, dopo avergli chiesto quale fosse il suo nome e quello del suo compagno di prigionia, l’uomo si è rivolto a lui con un “assalam aleïkoun” di pace ed è entrato nella sua cella. In seguito, egli ha intavolato una lunga discussione, come se lo sconosciuto cercasse davvero di conoscere meglio i due uomini di fronte a lui.
“Prendilo come un ritiro spirituale” gli ha risposto lo sconosciuto, quando p. Jacques lo ha interrogato sulle ragioni della sua prigionia. “Da quel momento - racconta il sacerdote - le mie preghiere, le mie giornate, hanno acquisito un senso. Come posso spiegarvi... Ho avvertito che attraverso di lui, era il Signore stesso che mi rivolgeva queste parole. Quel momento è stato davvero di grande conforto”.
“Grazie alla preghiera, io ho potuto ritrovare la mia pace” riferisce il sacerdote siriano. “Era maggio, il mese di Maria. Ci siamo messi a recitare il Rosario, che non ero solito pregare molto in passato. Tutto il mio rapporto con la Vergine Maria è stato rinnovato. La preghiera di santa Teresa d’Avila ‘Niente ti turbi, niente ti spaventi…’ anch’essa ha contribuito a sostenermi; e per lei, una notte, ho composto una melodia che ho poi iniziato a canticchiare. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi tra le mani del Signore, con la consapevolezza che non mi era dato di scegliere. Perché tutto portava a pensare che l’esito finale sarebbe stata la conversione all’islam, oppure la decapitazione".
Quasi ogni giorno, continua, "entravano nella mia cella e mi interrogavano sulla mia fede. Ho vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma non ho mai abiurato. Dio mi ha donato due cose: il silenzio e la cortesia. Sapevo che certe risposte potevano essere colte come provocazione, che qualunque parola può diventare la fonte della tua condanna. Così, mi hanno interrogato sulla presenza di vino al convento. Quell’uomo mi ha interrotto all’improvviso, quando ho iniziato a rispondere. Egli ha giudicato le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Grazie alla preghiera, ai salmi, sono entrato in un mondo di pace, che non mi ha più lasciato. Mi sono ricordato anche delle parole di Cristo nel Vangelo di san Matteo: ‘Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano’. Ero felice di poter vivere nel concreto questa parola. Non è cosa da poco, poter vivere il Vangelo, in particolare questi versi così difficili, che fino a quel momento erano solo teoria. Ho iniziato a provare compassione per i miei sequestratori”.
“In quell’occasione, mi sono tornate in mente anche le canzoni poetiche di Feyrouz - confessa p. Jacques - e in particolare una di quelle che parla del crepuscolo, che ero solito cantare quando su Raqqa calavano le lunghe notti di giugno, che ci lasciavano avvolti nell’oscurità. Anche queste parole e la loro musica diventavano fonte di preghiera. Esse parlavano della sofferenza ‘iscritta nel crepuscolo’”.

Poi, un giorno, p. Jacques viene frustato…
“Era il 23mo giorno della mia prigionia” ricorda. “Sono entrati all’improvviso. Era una sorta di messa in scena. La flagellazione è durata circa una trentina di minuti. La frusta era composta da un pezzo di tubo da giardino e delle corde. Ho avvertito il male fisico ma, nel profondo, mi sentivo in pace. Percepivo una grande consolazione nel sapere che potevo condividere in qualche modo le sofferenze di Cristo. Al contempo, mi sentivo per questo assai confuso, poiché pensavo di non essere degno di quella grazia. Perdonavo il mio aguzzino, nel momento stesso in cui egli mi colpiva. Ogni tanto, confortavo con un sorriso il diacono Boutros, mio compagno di cattività, che a stento riusciva a trattenersi nel vedermi oggetto di frustate. Dopo di che, mi sono ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la sua forza. Ne ero sempre più sorpreso, perché mi sentivo debole, sia a livello spirituale che fisico. Vedete, io soffro di mal di schiena sin dall’infanzia e le condizioni di prigionia erano tali da far aumentare, in un primo momento, il male. Al monastero avevo a disposizione un materasso speciale, e una sedia ergonomica. In cella, dormivo per terra e non c’era modo di camminare in questi servizi igienici”.
“La grande paura - prosegue p. Jacques - l’ho conosciuta poco dopo, quando un uomo armato di pugnale è entrato nella nostra cella; ho sentito sul collo la lama del coltello e ho pensato che fosse iniziato il conto alla rovescia per la mia esecuzione. Nello spavento, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio. In realtà, si trattava solo di una messa in scena”.
Il 4 agosto scorso, il gruppo jihadista ha assunto il controllo di Palmira e, da lì, di Qaryatayn. Il giorno successivo, all’alba, hanno preso in ostaggio la popolazione, almeno 250 persone, portandole a Palmira.
L’11 agosto, p. Jacques e il suo compagno hanno intrapreso lo stesso percorso. Ecco come: “Uno capo saudita è entrato nella nostra cella. ‘Sei tu padre Jacques?' ha chiesto. 'Ecco, allora vieni con me! I cristiani di Qaryatayn ci hanno fatto una testa quadra parlandoci di te!' Ho subito pensato che mi stavano prelevando per essere giustiziato. A bordo di un van, abbiamo compiuto un tragitto di quattro ore. Superata Palmira, abbiamo imboccato una strada di montagna che conduce a un edificio chiuso da una grande porta di ferro. Appena aperta, quello che vedo è tutta la popolazione di Qaryatayn lì radunata, meravigliata nel vedermi davanti a sé. Quello è stato un momento di sofferenza indicibile per me. Per loro, un momento straordinario di gioia".
Venti giorni più tardi, il primo settembre, "ci hanno portato a Qaryatayn, liberi, ma col divieto di lasciare il villaggio. In quel momento si è venuta a creare una sorta di contratto religioso collettivo: noi eravamo ormai sotto la loro protezione (‘ahl zemmé’), dietro pagamento di una tassa speciale, la jizya, che riguardava i non musulmani. Potevamo anche praticare i nostri riti, a condizione che questo non fosse elemento di scandalo per i musulmani. Qualche giorno più tardi, alla morte di uno dei nostri parrocchiani, deceduto per un cancro, siamo andati al cimitero, nei pressi del convento di Mar Elian. Ed è in quel momento che ho visto che era stato raso al suolo. Curiosamente, non ho avuto alcun tipo di reazione. Dentro di me, mi è sembrato di cogliere che Mar Elian abbia voluto sacrificare il suo convento e la sua tomba per la nostra salvezza”.

“Oggi - conclude p. Jacques, che ha sfidato il divieto di lasciare Qaryatayn e ha trovato il modo di fuggire, pur mantenendo uno stretto riserbo sulle modalità di fuga - continuo a provare per i miei rapitori lo stesso sentimento che provavo quando ero nelle loro mani: la compassione. Questo sentimento deriva dalla contemplazione dello sguardo di Dio nei loro confronti, a dispetto della loro violenza, come egli la prova verso tutti gli uomini: uno sguardo di pura misericordia, senza il minimo sentimento di vendetta”.

“Oggi - prosegue il sacerdote, un tempo monaco al monastero di Mar Moussa, fondato da p. Paolo Dall’Oglio - sappiamo che la preghiera è la via della salvezza. Bisogna continuare a pregare per i vescovi e i sacerdoti che sono tuttora scomparsi e di cui non si sa niente. Pregare per il mio fratello Paolo Dall’Oglio (scomparso a Raqqa nel luglio 2013). Dobbiamo infine pregare per una soluzione politica in Siria. Oggi ricordiamo il centenario del massacro e l’esodo del 1915. Senza una soluzione politica, l’emigrazione completerà il lavoro che i massacra del 1915 hanno iniziato”.

http://www.asianews.it/notizie-it/P.-Mourad:-Nelle-mani-dello-Stato-islamico-ho-avuto-compassione-dei-miei-rapitori-35941.html

sabato 20 giugno 2015

Papa Francesco e Patriarca Aphrem II: Il sangue dei martiri è seme di unità della Chiesa

Con il patriarca siro-ortodosso di Antiochia il Papa torna a denunciare il martirio dei cristiani 


Osservatore romano, 19 giugno 2015

Di fronte alle «terribili sofferenze provocate dalla guerra e dalle persecuzioni» contro i cristiani in Medio oriente e all’incapacità di «trovare soluzioni» da parte dei potenti del mondo, Papa Francesco torna a levare alta la voce, invitando a pregare «per le vittime di questa efferata violenza». 
Ricevendo in Vaticano venerdì mattina 19 giugno il patriarca siro-ortodosso Aphrem II, il Pontefice ha rilanciato il grido di dolore delle tante vittime innocenti di tutte le situazioni di conflitto presenti in varie regioni della terra. «Chiediamo anche al Signore — ha aggiunto — la grazia di essere sempre pronti al perdono e operatori di riconciliazione e di pace». Perché, ha spiegato, è questo «ciò che anima la testimonianza dei martiri».
Il Papa ha anche ricordato i due arcivescovi cristiani rapiti insieme in Siria più di due anni fa, così come i sacerdoti e le tante persone, di diversi gruppi, private della libertà. Da qui l’esortazione, rivolta al capo della Chiesa siro-ortodossa «in questo momento di dura prova e di dolore», a rafforzare «ancora di più i legami di amicizia e di fraternità», affrettando i «passi sul cammino comune» e scambiando i tesori delle rispettive tradizioni «come doni spirituali, perché ciò che ci unisce è ben superiore a ciò che ci divide».
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A SUA SANTITÀ MOR IGNATIUS APHREM II,
PATRIARCA SIRO-ORTODOSSO DI ANTIOCHIA E TUTTO L'ORIENTE
Venerdì, 19 giugno 2015

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E il patriarca siro-ortodosso gli parla di genocidio, paesi che finanziano il terrorismo, zona franca per i cristiani


Nella sua prima visita ufficiale in Vaticano, il patriarca Mor Ignatius Aphrem II ha portato con sé le tribolazioni e le attese di tutti i cristiani in Medio oriente, in particolare della Siria. «Giungiamo da Damasco — ha detto al Papa — portando con noi la sofferenza e le aspirazioni della gente» che «sta chiedendo a voce alta la pace»
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«Cristiani e musulmani: insieme per contrastare la violenza perpetrata in nome della religione»


 Messaggio del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ai Musulmani per il mese del Ramadan e ‘Id al-Fitr 1436 H. / 2015 A.D., 19.06.2015


Cari fratelli e sorelle musulmani,
1. Sono lieto di porgervi, sia a nome dei cattolici di tutto il mondo, sia personalmente, i migliori auguri di una serena e gioiosa celebrazione di ’Id al-Fitr. Nel mese di Ramadan osservate molte pratiche religiose e sociali, come il digiuno, la preghiera, l’elemosina, l’aiuto ai poveri, visite a parenti ed amici.
Spero e prego che i frutti di queste buone opere possano arricchire la vostra vita!
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venerdì 12 giugno 2015

Comunicato finale dell'incontro dei cinque Patriarchi di Antiochia , svoltosi a Damasco l'8 giugno scorso



Patriarcat grec-orthodoxe d'Antioche et de tout l'Orient 

1: L'8 giugno 2015, su invito di Sua Beatitudine il patriarca Giovanni X, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente dei Greci Ortodossi, si sono riunite nella chiesa al-Maryamiah a Damasco le loro Beatitudini e Santità Mar Béchara Boutros Al Raï, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente dei Maroniti, Mar Ignace Efram II, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente dei siro ortodossi, capo supremo della Chiesa siriaca ortodossa nel mondo, Grégorios III Laham, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme dei greco cattolici Melkiti e Mar Ignace Youssef III Younan, patriarca dei siro cattolici di Antiochia. Hanno partecipato a questa assemblea Sua eccellenza il Nunzio apostolico in Siria, l'arcivescovo Mario Zenari, e la gerarchia cristiana a Damasco, Il comunicato seguente è stato emesso alla fine di questo incontro spirituale
Ai nostri cari figli nel Signore delle chiese di Antiochia
2 :   "Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro,al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen." (Gal 1, 3-5)
Innanzi tutto noi ringraziamo il Signore che ci ha permesso di incontrarci, Noi  Patriarchi a cui è stata affidata la missione della protezione del popolo cristiano sparso nello spazio di Antiochia, a Damasco, questa città benedetta che ha accolto Paolo, l'apostolo dei gentili. Da questo Patriarcato fiorente che ha sempre difeso le giuste cause nel corso del tempo, noi eleviamo la voce e preghiamo continuamente Dio per voi perché in questi tempi tenebrosi “ voi conducete una vita degna del Vangelo” , voi testimoniate senza vergogna per il nostro Signore Gesù Cristo, “che ha annientato la morte e illuminato la vita “, voi sopportate le difficoltà fiduciosi della potenza di Dio e armati “dello spirito di forza, di carità e di discernimento “. Non è necessario chiedervi, cari figli, di pregare per noi vostri pastori, affinché il Signore ci dia la forza di “seguire con dirittura la Sua parola” e di glorificare nelle nostre azioni il suo nome santo mentre noi guidiamo il vascello della Chiesa in queste circostanze storiche esistenziali.
3 :  Dirigendoci a voi, vorremmo esprimervi che la nostra grande gioia dovuta a questo incontro fraterno si rinnova come si approfondisce attraverso il nostro scambio e si accresce attraverso la cooperazione per un' unica testimonianza cristiana antiochena perché è ad Antiochia che “ per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani “ ( Atti degli Apostoli 11, 16) là dove Dio ha voluto che noi fossimo i suoi testimoni, Di conseguenza, nel quadro della vostra piena fedeltà alle vostre Chiese, alle sue dottrine e ai suoi insegnamenti, noi vi chiamiamo ad aiutarvi mutuamente, a servire i poveri con dedizione, a informarvi sul pensiero ricco delle nostre Chiese, a scoprire la luminosa santità che ne emana, a radicarvi nell'eredità Antiochena, a pregare per l'unità dei cristiani, a operare per questa unità tanto desiderata, voluta dal Signore, sperando che essa si realizzerà nel nostro mondo, a partire da Antiochia.
Noi vi chiediamo anche di portare le vostre patrie nel pensiero e nelle preghiere, di domandare con insistenza l'instaurazione della pace in esse, che tutti i nostri figli sperimentino la vera gioia e vivano insieme nella dignità dei “figli di Dio”. Non dimenticate di operare per l'unità dei vostri paesi, il loro ammodernamento e lo stabilirsi dello stato civile. Conservate la diversità in tutta la sua ricchezza e non perdete né la vostra unicità né la vostra differenza.
Andate a fondo nella fede e testimoniate per “la speranza in voi” in tutti gli ambiti della vostra vita. Non utilizzate mai la vostra fede come elemento di separazione o come schermo che nasconde lo splendore e la grandezza dell'altro.
4:    Noi vi invitiamo cari figli a continuare a intrattenere le migliori relazioni con i nostri fratelli musulmani, nostri compagni nella patria e nel destino, con i quali noi viviamo su questa terra e con cui condividiamo, in queste circostanze, le disgrazie della violenza e del terrorismo generati dal pensiero takfiri e dalla assurdità delle guerre che rinvigoriscono gli interessi dei grandi che strumentalizzano la religione sfigurandola. I nostri vicini sentono le vostre sofferenze e ne soffrono. Essi operano con le loro gerarchie religiose per sradicare le radici del pensiero takfiri che ha raccolto e non cessa di raccogliere sempre più decine di migliaia di esseri umani.  Con loro, con la fedeltà del compagno fedele, noi alziamo la voce ed annunciamo che è il tempo di affrontare il pensiero takfiri , di far seccare le sue sorgenti inculcando un'educazione religiosa che diffonda la cultura dell'apertura, della pace e della libertà religiosa. È necessario stabilire un pensiero critico che conduca ad annullare l'espressione “casa della guerra” e “soggetto non musulmano in uno Stato islamico” e a stabilire la cittadinanza.
5: Quale cattivo momento è il presente in cui i terroristi strumentalizzano il nome di Dio per servire le proprie passioni, i propri interessi e quelli dei grandi di questo mondo! In questo momento in cui dominano la paura, la violenza, la schiavitù della donna, il rapimento, il massacro, la distruzione e lo sfollamento forzato, dei criminali senza Dio né misericordia obbligano gli individui a convertirsi.  Essi non hanno compreso che per saggezza Dio ha creato i suoi adoratori nella pluralità. I vostri assassini non comprendono che assassinandovi essi si condannano alla miseria eterna e la loro patria al sottosviluppo. Al centro di questa crisi oppressiva, non dimenticate che il Signore ha promesso: “ non temere piccolo gregge, perché è piaciuto al vostro Padre di darvi il Regno” ( Luca 12. 32). Sì cari figli, in questi giorni difficili in cui si è raggiunto “l'apice della distruzione” e in cui si conducono le persone come gregge al mattatoio, siate forti e non disperate. Siate forti e potenti per la grazia che colma ogni debolezza. Custodite “la resistenza dell'anima “ che si basa sulla purificazione, il perdono e la carità. Seguite l'etica del Vangelo. Siate fiduciosi in Dio che ha vinto il male e la morte perché “ egli non si allontanerà da voi”. Egli è il vostro compagno sulle strade dell'esilio, della partenza e dell'emigrazione. Egli è il vostro sostegno nella povertà, la fame e il bisogno, Egli è la vostra consolazione quando i giorni diventano ingiusti, ogni aiuto svanisce e il dubbio che Dio abbia cura di voi aleggia tra di voi.
Egli vi salva nella tribolazione, Egli è la luce che vi guida nelle tenebre di questo mondo, Egli è la vostra resurrezione dalla disperazione e morte, Egli è la vostra vittoria sul cattivo, sui suoi trucchi e strumenti.
6:  In questo tempo di tribolazione, unitevi intorno alla Chiesa che è il prolungamento del Cristo Dio nel mondo. Seguite le vostre Chiese, perché lo spirito di responsabilità pastorale ci impegna a moltiplicare i nostri sforzi, a renderci solidali con le persone di buona volontà per intraprendere sempre più le iniziative necessarie per conservare la nostra presenza sulla nostra terra, a far fronte ai vostri bisogni familiari, esistenziali e a garantire un avvenire per i nostri giovani. Essi sono la forza vivente e promettente nelle nostre patrie. Noi esprimiamo i nostri ringraziamenti e la nostra stima a tutti i volontari che si dedicano al servizio della carità nelle nostre istituzioni. Riunitevi intorno alla Chiesa. Sollecitate l'intercessione dei martiri caduti per la difesa della fede. Seguite l'esempio dei martiri che hanno sofferto nel loro corpo per rafforzare questa fede. Pregate per i perseguitati e le persone rapite tra i vostri pastori e fratelli, in particolare per i due Vescovi di Aleppo, Boulos Yaziji et Youhanna Ibrahim, ma anche per i sacerdoti sequestrati tra cui recentemente il padre Jacques Mourad. Sostenetevi gli uni gli altri e condividete insieme le disgrazie e le sofferenze, la gioia e le lacrime. Occupatevi dei poveri nella loro disgrazia perché essi sono i prediletti di Cristo. Consolate le vedove e gli orfani. Condividete il pane con gli affamati. Alleviate la sofferenza degli sfollati, seguite l'opera caritativa delle vostre Chiese nella loro organizzazione e nel loro servizio sociale. Donate il vostro denaro con generosità e il vostro tempo in favore “ dei piccoli fratelli di Gesù”.
7:  In riferimento ai nostri figli siriani.
Dopo che il popolo innocente e pacifico della Siria è caduto sotto il giogo di un terrorismo che le forze di questo mondo utilizzano per frammentare la Siria, cancellare la sua civiltà, dominare i suoi abitanti e cacciarli dalla loro terra, noi confermiamo il nostro attaccamento alla unità di questo paese, al diritto dei suoi cittadini di vivere in sicurezza, in libertà e in dignità. Noi ci rivolgiamo al mondo perché operi seriamente per trovare una soluzione politica a questa guerra assurda che percorre la Siria, una soluzione che garantisca l'instaurazione della pace, il ritorno dei rapiti, degli sfollati all'interno e all'esterno del paese, il diritto del popolo siriano all'autodeterminazione, in piena libertà, lontano da ogni ingerenza straniera.
Per l'Iraq, Questo paese risente le ricadute di una successione di guerre che hanno sradicato popoli interi dal territorio dei loro antenati, come gli avvenimenti che si sono svolti lo scorso anno anno a Mossul e nei villaggi e città della valle di Ninive. Sono state commesse atrocità tali da ricordare al mondo intero le ferocie commesse nel corso dei secoli più antichi ma che continuano a distruggere civiltà antichissime allo scopo di servire progetti razzisti e confessionali, estranei alla cultura dei iracheni.
Ma per il Libano. Il paese è un messaggio. Noi invitiamo a consacrare ogni fedeltà a lui solo, a servirlo e a servire gli interessi del suo popolo, a eleggere un Presidente della Repubblica che ridia alle istituzioni costituzionali il regolare svolgimento e infine operare a costruire una patria che rallegri tutti i libanesi.
Ai nostri amati in Palestina. I Padri assicurano con insistenza che essi rimangono il centro della loro preoccupazione. La loro voce non smetterà mai di difenderli e di difendere la loro causa anche se il mondo intero tenta di ignorarla e di indebolirla suscitando guerre e conflitti, il cui scopo consiste nel lasciare i violentatori della terra palestinese vivere in pace e tranquillità,
8:  Noi domandiamo alla Comunità Internazionale di assumere la propria responsabilità fermando le guerre sulla nostra terra, di trovare soluzioni pacifiche e politiche ai conflitti, nell'operare con serietà ad aiutare gli sfollati e gli emigrati a recuperare le loro case e le loro proprietà e a proteggere i loro diritti come cittadini. Noi diciamo loro che noi siamo i proprietari fin dalle origini di questa terra, radicati in essa. Essa è stata irrigata dal sudore della fronte dei nostri padri ed antenati. Noi assicuriamo più che mai che noi vi restiamo per costruirla con i nostri compagni nella cittadinanza. Noi abbiamo la responsabilità di questa terra per la quale il nostro sangue è stato effuso per difenderla. Il sangue dei nostri martiri è santificato. Noi ci rivolgiamo a tutte le persone che vogliono occuparsi del nostro destino perché ci aiutino a restare e a radicarci nella nostra terra per lavorarla, svilupparla e godere dei suoi beni, e non a facilitare il furto del nostro patrimonio, dei nostri beni, non a distruggere la nostra cultura, non a sottomettere il nostro essere vivente alla schiavitù, non ad imporci il cammino dell'emigrazione. Lanciamo il nostro grido e rinnoviamo la domanda di mettere fine alla guerra sulla nostra terra e di sostenere le basi della stabilità in tutta la regione.
9O nostri prediletti. In questo momento in cui si uccide in nome di Dio, siamo chiamati a comprendere che “ la carità è più forte della morte”. Uccidere in nome di Dio è ferire Dio. La nostra fedeltà al nostro Cristo che dice: “ Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” ci obbliga a diventare i messaggeri di pace in questo Levante. Il nostro compito consiste nell'affrontare ogni pensiero o ideologia che elevi al rango di sacro la violenza, il massacro e la vendetta.  La nostra fede in Dio non può manifestarsi che nella carità e pace verso l'umanità, la protezione della nostra terra e delle nostre Chiese nel quadro della libertà dei figli di Dio di cui uno dei più semplici fondamenti è il rispetto della diversità e della differenza.
10:   Da questa chiesa al-Maryamiyah noi invochiamo la Madre di Dio, nostra madre la cui intercessione è potente presso il Salvatore, perché ci salvi, e di salvare le nostre patrie dalle difficoltà che attraversiamo, di accordarci la forza per essere a sua immagine, persone che testimoniano per Cristo nella notte di questo mondo.
Che Dio vi accordi la benedizione e la forza per restare i Suoi testimoni in questa regione. La vostra vocazione consiste nell'essere "il sale del mondo e il piccolo lievito nel pane". Non trascurate questo invito per la liberazione del mondo.  Siate sicuri che in voi il Vangelo di Cristo resterà presente e operante nella chiesa di Antiochia.

Traduzione fatta dalla nunziatura apostolica a Damasco

(Traduzione dal francese di FMG)

martedì 21 aprile 2015

A due anni dal rapimento dei due vescovi ortodossi di Aleppo, Boulos Yazigi e Youhanna Ibrahim.


Ormai sono passati due anni dal rapimento (22 aprile 2013) nel nord della Siria di due vescovi ortodossi: il Metropolita greco-ortodosso di Aleppo, Boulos Yazegi e il Metropolita siriaco-ortodosso della stessa città, Youhanna Ibrahim. D'allora non si è mai più saputo nulla di concreto e verificabile sulla sorte di questi due religiosi. .... :
http://ilsismografo.blogspot.it/2015/04/siria-due-anni-dal-rapimento-in-siria.html

Un armeno nell'inferno di Aleppo "Il genocidio è ricominciato, 100 anni dopo"


La Nuova Bussola quotidiana, 18-04-2015di Stefano Magni




 Accolta mentre era in fuga dal genocidio turco del 1915-16, la comunità armena rivive gli orrori della persecuzione. E’ come una nemesi storica: ora stanno morendo proprio nella città che li salvò.Uno di loro, un armeno siriano, un pastore protestante che chiameremo Seraphim (per motivi di sicurezza), lo abbiamo incontrato in Italia, in questi giorni, invitato dall’associazione Open Doors. Ci racconta brevemente che cosa voglia dire spostarsi in tempo di guerra, chiuso in un bus, con le tende tirate, senza possibilità di muoversi, con la paura che qualche cecchino inizi a sparare sui passeggeri. Il bus attraversa infatti aree urbane controllate dagli jihadisti. Un viaggio che in tempo di pace avrebbe comportato otto ore, in tempo di guerra ne dura il doppio, per arrivare fino a Beirut e giungere a contatto col mondo esterno, per ottenere un visto (rimandato tre volte) per poter arrivare fino all’Italia, che lui chiama “il paradiso”. Fra non molto, però, sarà destinato a tornare nell’inferno siriano, in quello che ormai, chiama “la mia vita normale”. Ed è una vita fatta necessariamente di poco: spostamenti ridotti al minimo (“Quando la città era assediata, non potevo muovermi oltre un migliaio di metri attorno alla mia casa”), acqua e luce razionati, a volte disponibili anche solo per un’ora ogni due giorni, niente carne, code e lotte per il pane, medicine reperibili solo al mercato nero. Il tutto a poche centinaia metri dalle linee tenute dagli jihadisti, che non si fanno scrupoli a sparare razzi contro la sua chiesa, a rapire i suoi fedeli. E non c’è mai la certezza di risvegliarsi il giorno dopo, perché i bombardamenti e i proiettili vaganti sono una minaccia continua, per cui si deve necessariamente dormire lontano da muri esterni e finestre, possibilmente in cantina.


Seraphim, come era la vita prima che iniziasse questo inferno?
Come qui in Italia, forse anche più sicura. La Siria era uno dei posti più sicuri del mondo. Potevo girare indisturbato anche a mezzanotte. Le donne potevano circolare liberamente, sia di giorno che di sera e nessuno le importunava. Come cristiani, era rispettato il nostro diritto di praticare la nostra fede e di esprimerci apertamente. Dal 2011 in poi è cambiato tutto. Gli islamici più fanatici sono dappertutto. Se sei cristiano, puoi essere ucciso per la tua fede, il rischio è altissimo. Ora è uno dei posti più pericolosi del mondo.

Se definisce la Siria d’ante-guerra come uno dei luoghi più sicuri al mondo, perché è scoppiata la rivoluzione, secondo lei?
Prima di tutto non la chiamerei una “rivoluzione”. La chiamo “caos”, un caos che è stato alimentato per far attecchire il radicalismo islamico, oltre che per distruggere un sistema politico in cui, da cristiani, eravamo liberi. Ed è scoppiata perché i Fratelli Musulmani vogliono governare il Paese.
Non sono un politico, ma secondo me questo caos, per come è iniziato all’improvviso, è stato pianificato. Erano la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita che volevano cambiare la mappa del Medio Oriente, cambiare i governi in carica e la testa della gente. La guerra è scoppiata, nel nostro Paese, nel nome della democrazia. Ma io mi sono sempre chiesto: perché non si parla mai di democrazia in Arabia Saudita? E’ una democrazia, per caso, la monarchia assoluta saudita? Tutti sanno che i paesi meno liberi sono proprio quelli del Golfo, dove alle donne non è neppure consentito di guidare l’auto. In Siria, ai cristiani era permesso di costruire nuove chiese. In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa. Qualcuno se l’è chiesto? In Turchia è difficile ottenere il permesso per costruire nuove chiese, anche solo per riparare quelle già costruite. Dalle monarchie del Golfo non è arrivata democrazia, né libertà. Hanno esportato il wahhabismo, hanno prodotto l’Isis, hanno prodotto Al Nusrah. E la copertura per tutto questo è chiamata “democrazia”. Che democrazia è mai quella in cui i fanatici islamici sgozzano i cristiani?

Suleimaniya è stato bombardato nei giorni scorsi…
E’ importante notare che il quartiere di Suleimaniya è prevalentemente abitato da cristiani armeni. Essendo armeno, io vedo ancora la mano della Turchia dietro a queste azioni. Perché è stata la Turchia ad aprire i suoi confini meridionali, per far passare tutti questi fanatici. In un certo senso, è come se la Turchia stia cercando di completare il genocidio degli armeni, a 100 anni di distanza. E quel che è più grottesco, è che lo fa nel nome della “democrazia”. C’è una definizione del Vangelo che descrive molto bene questo modo di comportarsi: “Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono verso di voi in vesti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci” (Mt 7,15-20). Nella Turchia vedo questo falso profeta, questo lupo travestito di valori democratici. E lo si deduce anche dalla reazione che ha avuto il Gran Muftì turco dopo le parole di Papa Francesco sul genocidio armeno. Quel che sta avvenendo è una prosecuzione del genocidio, non vogliono gli armeni, nemmeno vicino ai loro confini.

Quanti cristiani hanno deciso di restare ad Aleppo?
Non conosciamo le cifre esatte. Posso parlare, per esperienza diretta, della mia comunità. Ogni domenica nella mia chiesa si radunano fra le 240 e le 260 persone, nonostante debbano camminare per almeno mezzora per arrivarci. E camminare, ad Aleppo, vuol dire sfidare cecchini, granate, bombardamenti improvvisi, sempre nuovi posti di blocco stabiliti dai fanatici. Difficile dire chi voglia restare o andare. Ognuno ha i suoi piani personali e familiari. Il nostro scopo è quello di far sì che la gente sopravviva, perché continui a testimoniare la fede e sia capace di ricostruire ancora la vita dopo la guerra.

Ma come è possibile continuare a vivere ad Aleppo?
Dal punto di vista umano, devo dire che è impossibile. Immagini di vivere senza energia elettrica, senza acqua, dormire e correre il rischio concreto di essere ammazzato da una bomba, all’improvviso, nel sonno, lanciata da un fanatico islamico. E’ impossibile continuare a vivere così. Ma al tempo stesso, quali sono le alternative? Nessuna. L’unica vera alternativa è essere uccisi o sopravvivere. Scappare? E dove? Il Libano sta chiudendo le porte, la Turchia è contro di noi, nel resto della Siria c’è guerra, abbiamo tre fronti attorno alla nostra città. Quindi l’unica alternativa è sopravvivere alla morte.

Lei ritiene che sia possibile che l’Isis possa conquistare Aleppo?
Nessuno lo può sapere. Guardi cosa è successo a Mosul: in un solo giorno hanno preso la città, quando nessuno se l’aspettava. In un giorno è cambiato tutto. Se il Qatar e la Turchia continuano ad appoggiarli, lo possono fare anche altrove, anche ad Aleppo. L’esercito siriano dichiara di fare tutto il possibile per tenere l’Isis fuori dalla città, ma non riesce ad impedire loro di lanciare i razzi contro i quartieri cristiani. L’anno scorso, quando il Fronte Al Nusrah attaccò una cittadina armena, nel Nordovest della Siria, la Turchia gli spalancò le porte. I miliziani entrarono nella città, distrussero case e chiese, distrussero tutto. In sintesi, finché la Turchia non chiuderà i suoi confini ai fanatici, questa guerra andrà avanti. Finché Qatar e Arabia Saudita non continueranno a dare ai fanatici i loro soldi sporchi, questa guerra andrà avanti.

Cosa significa la persecuzione, vissuta dai cristiani?
I fanatici ci lanciano un messaggio molto chiaro: o diventi musulmano, o ti sottometti e paghi la relativa tassa, o morirai. Ma anche se accetti di restare e pagare la tassa di sottomissione, loro ti uccideranno. Per loro, l’uccisione di cristiani è premiata con il Paradiso.

giovedì 2 aprile 2015

Intervento della Santa Sede sulla situazione siriana. Per il rispetto dei bambini vittime della guerra

L'Osservatore Romano 



Pubblichiamo la traduzione italiana della dichiarazione dell’arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, pronunciata a Ginevra il 17 marzo 2015, in occasione della 28ª sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo.

Signor Presidente,

I conflitti hanno costretto un numero sbalorditivo di 5,5 milioni di persone a fuggire dalle proprie case nei primi sei mesi del 2014. Si tratta di un’importante aggiunta al record di 51,2 milioni di persone in tutto il mondo che già erano forzatamente dislocate alla fine del 2013 (Unhcr, Mid-Year Trends 2014, p. 3).
La Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Repubblica Araba di Siria di recente ha riferito che, dall’inizio della crisi, «più di 10 milioni di siriani sono fuggiti dalle loro case. Si tratta di quasi metà della popolazione del Paese, ora privata dei suoi diritti elementari a un riparo e a un alloggio adeguato, alla sicurezza e alla dignità umana. Molti sono vittima di violazioni di diritti umani e di abusi e hanno urgente bisogno di misure protettive e di sostegno». Ad aggravare questa tragedia, più di 3 milioni di persone, per la maggior parte donne e bambini, sono fuggite dalla Repubblica Araba di Siria e vivono come rifugiate nei Paesi limitrofi (Relazione della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Repubblica Araba di Siria, Consiglio per i diritti umani [27ª sessione], 5 febbraio 2015). La violenza continua a produrre vittime in particolare in Medio Oriente, ma anche altrove, dove l’odio e l’intolleranza sono i criteri per le relazioni tra i diversi gruppi. I diritti umani di queste persone forzatamente dislocate vengono violati impunemente in modo sistematico. Diverse fonti hanno fornito testimonianze di come i bambini soffrano per le brutali conseguenze di uno stato di guerra persistente nel loro Paese. I bambini vengono reclutati, addestrati e utilizzati in ruoli di combattimento attivo, talvolta perfino come scudi umani negli attacchi militari. Il cosiddetto gruppo dello Stato Islamico (Isis) ha aggravato la situazione addestrando e usando bambini come kamikaze; uccidendo bambini che appartengono a comunità religiose ed etniche diverse; vendendo bambini come schiavi nei mercati; giustiziando un numero rilevante di ragazzini; e commettendo altre atrocità (Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, Concluding observations on the combined second to fourth periodic reports of Iraq, p. 5, punto 23 [a], 4 febbraio 2015, Ginevra). I bambini costituiscono circa la metà della popolazione di rifugiati nei campi profughi in tutto il Medio Oriente e sono il gruppo demografico più vulnerabile in tempi di conflitto e di migrazione. La loro vita in esilio è piena di incertezza e di lotte quotidiane. «Molti sono separati dalle loro famiglie, hanno difficoltà ad accedere ai servizi di base e vivono in una povertà crescente. Solo un bambino siriano su due tra quelli rifugiati nei Paesi limitrofi riceve un’educazione» (A. Guterres, discorso durante la sessione di apertura della conferenza su Investing in the Future a Sharjah, 15 ottobre 2014). Al di là delle situazioni specifiche che devono affrontare i bambini internamente sfollati e quelli che vivono nei campi profughi della regione, e al di là delle immense tragedie che li colpiscono, appare importante immaginare il loro futuro, focalizzandosi su tre ambiti di preoccupazione.
Anzitutto, il mondo deve affrontare la situazione dei bambini apolidi che, come tali, secondo la legge, non sono mai nati. Le Nazioni Unite stimano che solo in Libano ci siano circa 30.000 di questi bambini. Inoltre, a causa dei conflitti mediorientali e dello sradicamento di massa delle famiglie, diverse migliaia di bambini non registrati sono sparsi nei campi profughi e nei Paesi d’asilo (Unicef Monthly Humanitarian Situation Report, Syria Crisis, 14 ott. – 12 nov. 2014). Si tratta di “bambini fantasma” i cui genitori sono fuggiti dalla Siria, ma dei quali il nome e la data di nascita non sono mai stati registrati in nessun ufficio. Di fatto, l’Unicef rileva che 3.500 bambini “ufficialmente” non hanno una famiglia o un’identità. Ciò accade perché tutti i documenti personali sono stati distrutti sotto le macerie della guerra o, talvolta, semplicemente perché i genitori non avevano avuto il tempo o i soldi per registrare la nascita. I bambini apolidi attraversano da soli i confini internazionali e si ritrovano totalmente abbandonati. Il numero di persone apolidi nel mondo ammonta a 10 milioni. Mentre tutti devono affrontare grandi difficoltà, coloro che fuggono dalla Siria si trovano di fronte a sfide ancora più drammatiche: un bambino di età inferiore agli undici anni e privo di documenti non ha accesso nemmeno ai servizi più elementari. Ovviamente questi bambini non possono andare a scuola ed è probabile che vengano adottati illegalmente, reclutati in un gruppo armato, abusati, sfruttati o costretti alla prostituzione. Ogni bambino ha il diritto a essere registrato alla nascita e quindi a essere riconosciuto come persona dinanzi alla legge. L’attuazione di questo diritto apre il cammino che permette di accedere al godimento di altri diritti e benefici che riguardano il futuro di tali bambini. Semplificare i meccanismi e i requisiti per la registrazione, rinunciare alle tasse, impegnarsi per una legislazione sulla registrazione che includa i rifugiati sono alcuni passi per risolvere la piaga dei bambini apolidi.
In secondo luogo, un altro elemento fondamentale che incide sul futuro dei bambini sradicati è l’educazione. Sia in Siria sia nei campi profughi nella regione, fornire un’educazione è diventato estremamente problematico. Circa 5.000 scuole (Relazione della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Repubblica Araba di Siria, Consiglio per i diritti umani [27ª sessione], 5 febbraio 2015) sono state distrutte in Siria, dove oltre un milione e mezzo di studenti non riceve più un’educazione e dove gli attacchi contro gli edifici scolastici continuano. Gli estremisti dell’Isis hanno già chiuso un numero consistente di scuole nei territori sotto il loro controllo. La situazione di pericolo del Paese non permette ai bambini di frequentare la scuola, né di accedere a un’educazione adeguata. La comunità internazionale nel suo insieme sembra aver valutato male l’entità della crisi siriana. Molti ritenevano che il flusso di rifugiati siriani fosse temporaneo e che quei rifugiati avrebbero lasciato i Paesi d’asilo entro pochi mesi. Ora, dopo quattro anni di conflitto, appare probabile che questi rifugiati rimarranno e che la popolazione locale dovrà imparare a vivere con loro fianco a fianco. A causa del conflitto, i bambini sono indietro nell’educazione e stanno perdendo la gioia della loro infanzia. Nei campi ci sono solo 40 insegnanti per oltre 1.000 studenti, di età compresa tra i 6 e i 17 anni. La maggior parte degli insegnanti sono volontari, spesso anch’essi rifugiati. Le lezioni sono incentrate sul disegno e sulla musica per aiutare ad alleviare il trauma; quando sono disponibili i libri vengono insegnati scrittura e matematica. In Turchia i bambini hanno difficoltà ulteriori dovute alla barriera linguistica. I rifugiati parlano arabo o curdo, quindi non possono frequentare le scuole pubbliche dove si parla solo il turco. Per ragioni diverse, sia nel loro Paese natale sia nei campi profughi i bambini trovano un sistema educativo inadeguato che sconvolge il loro futuro. Ovunque c’è urgente bisogno di un sistema educativo che possa assorbire questi bambini e portare una qualche normalità nella loro vita.
In terzo luogo, un’altra seria conseguenza della violenza persistente che tormenta il Medio Oriente è la separazione dei membri della famiglia, che costringe tanti minori a cavarsela da soli. Alla radice della destabilizzazione della società c’è la violenza generalizzata che porta alla disgregazione della famiglia, l’unità fondamentale della società. Al fine di evitare l’ulteriore sfruttamento dei bambini e di proteggerli in modo adeguato, occorre compiere uno sforzo aggiuntivo per facilitare il ricongiungimento dei minori con le rispettive famiglie.

Signor Presidente,
I diritti a un’identità legale, a un’educazione adeguata e alla famiglia sono elementi chiave e requisiti specifici in un sistema comprensivo di protezione dell’infanzia. Tali misure esigono la stretta collaborazione di tutte le parti interessate. L’accesso a una buona educazione e a un’assistenza psico-sociale, come anche ad altri servizi fondamentali, è estremamente importante. Tuttavia, i bambini non possono beneficiare di tali servizi a meno che non vengano registrati alla nascita e che le loro famiglie e comunità vengano aiutate a proteggerli meglio. Se la violenza non finisce e non si riprende il ritmo normale dell’educazione e dello sviluppo, questi bambini rischiano di diventare una generazione perduta.
La pace in Siria e in Medio Oriente è la priorità per una sana crescita di tutti i bambini. Con convinzione, durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa Papa Francesco ha affermato: «Cessino le violenze e venga rispettato il diritto umanitario, garantendo la necessaria assistenza alla popolazione sofferente! Si abbandoni da parte di tutti la pretesa di lasciare alle armi la soluzione dei problemi e si ritorni alla via del negoziato. La soluzione, infatti, può venire unicamente dal dialogo e dalla moderazione, dalla compassione per chi soffre, dalla ricerca di una soluzione politica e dal senso di responsabilità verso i fratelli» (Incontro con i rifugiati e con giovani disabili nella chiesa latina a Bethany beyond the Jordan, sabato 24 maggio 2014).
Grazie, Signor Presidente.

L'Osservatore Romano, 28 marzo 2015

mercoledì 22 gennaio 2014

GINEVRA 2 : l'appello di Papa Francesco. Le opinioni della stampa.




























(a cura Redazione "Il sismografo")

Testo dell'appello del Santo Padre:
"Oggi si apre a Montreux, in Svizzera, una Conferenza internazionale di sostegno alla pace in Siria, alla quale faranno seguito i negoziati che si svolgeranno a Ginevra a partire del 24 gennaio corrente. 
Prego il Signore che tocchi il cuori di tutti perché, cercando unicamente il maggior bene del popolo siriano, tanto provato, non risparmino alcuno sforzo per giungere con urgenza alla cessazione della violenza e alla fine del conflitto, che ha causato già troppe sofferenze. 
Auspico alla cara nazione siriana un cammino deciso di riconciliazione, di concordia e di ricostruzione con la partecipazione di tutti i cittadini, dove ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere ed abbracciare".
http://ilsismografo.blogspot.it/2014/01/Ginevra2-appello-Santo-Padre-Siria-riconciliazione.html

La guerra in Siria ha troppi sponsor internazionali. Ecco perché Ginevra II non la fermerà


 TEMPI, 22 gennaio  2014
di  Rodolfo Casadei
......
La priorità assoluta nell’attuale crisi è un cessate il fuoco su tutto il territorio della Siria, insanguinato da un conflitto che ha già causato 130 mila morti. Esso può essere ottenuto solo attraverso pressioni molto decise degli sponsor internazionali sui loro protetti locali: le armi taceranno se lo vorranno l’Arabia Saudita (padrino del Fronte islamico), Turchia, Stati Uniti e Unione Europea (padrini del Libero esercito siriano), la Russia e l’Iran (padrini del governo di Damasco), e quando Ankara si deciderà a sbarrare il passaggio di jihadisti attraverso il suo territorio ......

Leggi di Più: Perché Ginevra II non fermerà la guerra in Siria | Tempi.it


Ginevra 2, per la Siria la pace resta lontana


di Giorgio Bernardelli
La Bussola Quotidiana , 22-01-2014 

Anche se tutti la chiamano da mesi Ginevra 2 si apre oggi a Montreaux (per non dare troppo fastidio al Salone dell'orologeria). Ma l'attesa conferenza internazionale sulla Siria a Ginevra ci arriverà comunque: succederà venerdì, quando tutti sperano che si svolga davvero il faccia a faccia tra la delegazione del governo di Bashar al Assad e i ribelli che da ormai tre anni si combattono nella grande carneficina di cui l'Onu ha addirittura smesso ormai di conteggiare i morti.
Non si apre certo nel migliore dei modi Ginevra 2, dopo l'incredibile balletto di lunedì quando il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon - dopo un invito last minute inviato anche all'Iran - è stato costretto a ritirarlo per via della minaccia della Coalizione nazionale siriana (la rappresentanza politica del fronte dei ribelli, sostenuta anche da Washington) che altrimenti non avrebbe partecipato ai lavori. Motivo? Il fatto che Teheran avesse parlato di trattativa «senza precondizioni». Che, tradotto in parole povere, significa senza sottoscrivere a priori quella «transizione senza Assad» sulla quale quasi venti mesi fa i cinque grandi del Consiglio di sicurezza dell'Onu si erano accordati (si è visto con quanta convinzione) in occasione del vertice che viene chiamato Ginevra 1.
Chiunque sappia qualcosa di Medio Oriente sa bene che proporre una precondizione del genere oggi all'Iran è come chiedergli una capitolazione. Eppure la mossa della Coalizione nazionale siriana - e dei suoi potenti padrini a Riyad e nei Paesi del Golfo - è servita a mettere in chiaro una cosa: chi è il nemico vero nella guerra che si sta combattendo sulla pelle della Siria.

       continua la lettura su:   http://www.lanuovabq.it/it/articoli-ginevra-2-per-la-siria-la-pace-resta-lontana-8260.htm#.Ut9uKyGU8Fg.twitter


Che i Paesi partecipanti abbiano un sussulto di dignità e di libertà e mettano al primo posto le aspettative di pace del popolo siriano e non gli interessi particolari della politica


La scelta di convocare l'Iran, pur opportuna, è stata contestata dall’opposizione anti-Assad, cosicché gli Stati Uniti hanno fatto pressione sull'Onu per annullare l'invito. 

di Patrizio Ricci 

A Ginevra 2 i paesi invitati sono numerosi. Sono stati chiamati a mandare i propri delegati oltre 40 nazioni, da ogni latitudine. Ci sono persino Australia e Corea ma non l'Iran: il paese contro cui indirettamente si combatte in terra di Siria, è stato escluso dai lavori. Potrà seguire il summit solo 'a distanza', da membro esterno, senza diritto di parola. Certo, l'Iran un modo per partecipare al negoziato ce l'aveva. Tuttavia era apparso inaccettabile: secondo il Segretario di Stato degli Stati Uniti doveva accettare in anticipo, come precondizione, l'uscita di Assad dalla scena politica e l'inclusione dei ribelli nel nuovo governo di transizione. E' proprio esattamente il contrario di ciò che era stato deciso nella precedente Conferenza 'Ginevra 1': in quell'occasione si era convenuto che la successiva Conferenza di pace Ginevra 2, non avrebbe posto pre-condizioni. L'esito degli accordi non sarebbe stato deciso 'a priori' secondo la convenienza politica di alcuni ma sarebbe scaturito dal libero dibattito politico.  



Ginevra II, Patriarca di Mosca: Fermare la guerra e liberare gli ostaggi

Kirill si rivolge ai partecipanti alla conferenza internazionale sulla Siria che si apre oggi a Montreux, in Svizzera. Ancora nessuna notizia dei due vescovi ortodossi sequestrati ad aprile 2013.

Mosca (AsiaNews/Agenzie) - Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, ha inviato un messaggio ai partecipanti alla conferenza internazionale sulla Siria, che si apre oggi 22 gennaio a Montreux (in Svizzera) auspicando che la cosiddetta "Ginevra II" metta fine alla guerra nel Paese mediorientale.
"Oggi il mondo guarda a voi con la speranza di azioni risolute, volte ad assicurare una soluzione pacifica del sanguinoso conflitto in Siria", si legge nella dichiarazione del primate ortodosso, diffusa dalle agenzie russe e in cui Kirill parla di "grande responsabilità". "La dimensione della tragedia, che da tre anni si consuma in Siria, è enorme" ha denunciato Kirill, il quale a settembre aveva scritto anche al presidente Usa, Barack Obama, contro l'allora paventato attacco militare a Damasco.
Il Patriarca ha invitato tutti gli uomini di buona volontà a fermare l'escalation di violenza in Siria, "mettere fine all'intervento dei gruppi terroristi ed estremisti, al loro finanziamento e sostegno militare dall'esterno, e dare la possibilità al popolo siriano di decidere lui stesso quale cammino intraprendere".
Il leader ortodosso ha poi indicato nella "liberazione degli ostaggi e nella protezione dei luoghi sacri e dei monumenti di valore storico e culturale", il primo passo necessario per raggiungere la pace e la stabilità.
La Chiesa ortodossa russa ha espresso più volte preoccupazione per la sorte del metropolita Boulos Yazigi (della Chiesa ortodossa di Antiochia) e del metropolita Mar Gregorios Youhanna Ibrahim (della Chiesa siro-ortodossa), sequestrati da un gruppo di militanti nell'aprile dell'anno scorso. I due leader religiosi erano impegnati in lavori di tipo umanitario nel villaggio di Kafr Dael, vicino al confine turco-siriano.

http://www.asianews.it/notizie-it/Ginevra-II,-Patriarca-di-Mosca:-Fermare-la-guerra-e-liberare-gli-ostaggi--30096.html

giovedì 19 dicembre 2013

“Ho sempre la Siria nel mio cuore”

Intervento del Cardinale Leonardo Sandri prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali nell'incontro "Cosa chiede la Siria?" presso il Centro Internazionale di Comunione e Liberazione


a cura Redazione "Il sismografo"

Martedì 17 dicembre 2013

 Cari amici, saluto e ringrazio il Signor Ministro della Difesa, Senatore Mario Mauro, che ritrovo volentieri pochi mesi dopo la tavola rotonda sul Medio Oriente organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma, come pure il presidente del Centro Internazionale, Dottor Fontolan, organizzatore e ospite di questa serata, insieme al Dottor Cusenza, direttore de Il Messaggero che funge da moderatore. Il nostro essere qui stasera dice il desiderio ed insieme la decisione di non lasciarci vincere da quella “globalizzazione dell’indifferenza” tanto denunciata da Papa Francesco in diverse occasioni. A lui anzitutto va il pensiero riconoscente e la preghiera, nel giorno del suo 77° genetliaco, per la cura paterna sempre mostrata verso la Siria e la sua cara e martoriata popolazione.

1. Fa da cornice a questa serata l’Avvento, durante il quale la preghiera liturgica della Chiesa, in uno dei suoi prefazi, afferma:  “Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno” . Per il credente, e anche per chi è sulla soglia della fede, la vicenda della Siria rappresenta quell’uomo e quel tempo particolare nei quali il Signore continua a venirci incontro, fa appello a noi, e chiede accoglienza e testimonianza nell’amore. 
Proprio come accadrà qui nella seconda parte della serata, con il reportage di Gianni Micalessin e le parole del Presidente della Fondazione AVSI, Dottor Alberto Piatti. Con la medesima preoccupazione del Santo Padre, come l’ho sentita espressa dal nuovo Vicario Apostolico di Aleppo, il frate George Abou Khazen, che ordinerò Vescovo all’inizio di gennaio a Beyrouth: al termine dell’Udienza generale di mercoledì scorso egli si è accostato a Papa Francesco, si è presentato, e subito, con una mano sul petto, Sua Santità gli ha replicato: “Ho sempre la Siria nel  mio cuore”

2. Dobbiamo anche noi ripartire dal cuore ferito, che non vuole e non può fare finta di niente: francamente, negli uffici della Congregazione per le Chiese Orientali, ci è dato di farne esperienza ogni giorno. Volti di seminaristi e suore che da lì provengono, sono a Roma per affrontare gli studi ma non possono non correre col pensiero alla loro patria e alla loro chiesa; Patriarchi e Vescovi che riferiscono della dura situazione personale e del gregge loro affidato, che pur stentando nel quotidiano e sognando spesso una fuga all’estero - per chi se lo può permettere -  non smettono di indicare il Signore come fonte di luce e di speranza. 

E ancora le lettere e le mail, l’ultima proprio ieri, dal Padre Custode di Terra Santa, fr. Pierbattista Pizzaballa
“devo purtroppo e ancora una volta portare alla vostra attenzione la sempre più difficile situazione dei nostri ultimi due villaggi cristiani rimasti nell’Oronte di Siria, dei nostri parrocchiani e dei nostri confratelli che li assistono. Il Nord della Siria è sempre più in mano di ribelli estremisti, mentre le forze cosiddette ‘moderate’ perdono forza. I ribelli che controllavano la ‘nostra’ zona, che fino ad oggi si ritenevano tolleranti, sono stati sostituiti da gruppi estremisti che non amano la presenza dei non musulmani nel loro ‘emirato’. Gli ultimi ordini ricevuti dai nostri frati, padre Hanna e padre Dhiya, sono i seguenti: 
a.Tutte le croci debbono sparire; b. è proibito suonare le campane; c. le donne non debbono uscire di casa senza coprire la faccia e i capelli.. d. tutte le statue debbono sparire.. In caso di inadempienza, si applicherà la legge islamica. In sostanza: chi non si adegua o se ne va o viene fatto fuori. Questi ordini si applicano a Knayem, Yacoubieh e Jdeideh, che attualmente è servito dai nostri confratelli. Per coloro che forse non conoscono la zona, quei villaggi sono esclusivamente cristiani. Invito ciascuno a pregare per tutte le comunità di Siria, in particolare per coloro che vivono sotto il controllo di questi estremisti… Preghiamo affinchè il cuore di queste persone si apra all’ascolto e soprattutto perché il nostro piccolo gregge di Siria continui a confidare nel Signore”.  

Di fronte a certi racconti, il senso di ingiustizia, misto ad impotenza, ci potrebbe condurre ad  alimentare l’ira e il rancore. Ma torna alla mente la citazione dell’Antigone di Sofocle che il Pontefice emerito, Benedetto XVI, pronunziò durante la sua visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau: “Non sono qui per odiare, ma per insieme amare”. Proprio quel discorso ci aiuta a stare dinanzi al nostro cuore ferito dal dramma della Siria e ad intuire percorsi personali e sociali di rinnovamento: “No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l'uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e dell'opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l'abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall'altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che  riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti… Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché la ragione dell'amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell'irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio.” (Benedetto XVI, 28 maggio 2006).

Sono parole pronunciate sette anni fa, ma che offrono in filigrana la lettura degli interventi del Santo Padre Papa Francesco e della Santa Sede a vari livelli durante il conflitto siriano. Pensiamo al grido a Dio e all’uomo risuonato nella veglia del 7 settembre scorso, alle parole all’Angelus del giorno successivo: 
in questo momento in cui stiamo fortemente pregando per la pace, questa Parola del Signore ci tocca sul vivo, e in sostanza ci dice: c’è una guerra più profonda che dobbiamo combattere, tutti! È la decisione forte e coraggiosa di rinunciare al male e alle sue seduzioni e di scegliere il bene, pronti a pagare di persona: ecco il seguire Cristo, ecco il prendere la propria croce! Questa guerra profonda contro il male! A che serve fare guerre, tante guerre, se tu non sei capace di fare questa guerra profonda contro il male? Non serve a niente! Non va… 
Questo comporta, tra l’altro, questa guerra contro il male comporta dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve; dire no alla violenza in tutte le sue forme; dire no alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Ce n’è tanto! Ce n’è tanto! E sempre rimane il dubbio: questa guerra di là, quest’altra di là - perché dappertutto ci sono guerre - è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale? Questi sono i nemici da combattere, uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune” (Papa Francesco, Angelus 8 settembre 2013). 

O, in ultimo, le indicazioni offerte dal Segretario per i Rapporti con gli Stati, Sua Eccellenza Mons. Mamberti, nell’incontro del 5 settembre con gli Ambasciatori presso la Santa Sede, con alcuni elementi molto puntuali, quali 
“a. l’indispensabilità di adoperarsi per il ripristino del dialogo fra le parti e la riconciliazione del popolo siriano;  b. preservare l’unità del Paese;  c. garantire accanto all’unità del Paese la sua integrità territoriale”.

3. Nel contesto del Centro Internazionale di Comunione e Liberazione, e pensando al fondatore don Luigi Giussani, non voglio tacere su una dimensione fondamentale che è in campo oggi in Siria e in Medio Oriente ma che riguarda anche noi, quella educativa. Essa è in questione a molteplici livelli. Da un lato, la proclamata lotta al terrorismo, con alleanze che forse hanno tenuto conto solamente delle convenienze economiche, senza valutare se in taluni paesi abbia un peso consistente il pensiero e la visione fondamentalista. 
Similmente c’è da interrogarsi sull’ 'emergenza uomo' – facendo eco al titolo dell’ultima edizione del Meeting di Rimini: proprio il difetto nella visione antropologica e sul mondo conduce inesorabilmente sul piano inclinato che arriva alla distruzione della persona nella sua dignità. Ne è espressione diabolica l’utilizzo delle armi chimiche: ora si afferma che siano state usate in Siria,  stando al rapporto ONU reso pubblico nei giorni scorsi. Ma questa deriva nell’uso di armamenti letali  non è stata resa possibile anche da una ricerca scientifica e tecnica che non vuole alcun limite ed è piuttosto portata a celebrare se stessa, soprattutto nel nostro Occidente?  
Dobbiamo ugualmente affermare che se l’uomo è certo capace di pensare e compiere il male, tuttavia è anche capace di reagire, per un sussulto di coscienza, quasi rientrando in se stesso e compiendo responsabilmente gesti che limitano le azioni negative poste in essere o che potrebbero svilupparsi in futuro,  e cercano di porvi rimedio.  A Damasco, in ogni caso, , la Siria anche con l’aiuto di diversi paesi ha distrutto l’intero arsenale chimico, proposta accettata dal governo e realizzata in pochissimo tempo, che ha posto fine ad uno dei pericoli per la stabilità della regione.

La missione dell’essere umano, portata avanti con responsabilità piena, richiama anche al ruolo e alla presenza stessa dei cristiani, chiamati ad essere sale e lievito nelle società. Va decisamente riaffermato che essi sono in Medio Oriente da duemila anni, e hanno condiviso secoli di convivenza con i fedeli di altre religioni: esemplari le parole del Santo Padre pronunciate nell’Udienza alla Plenaria della nostra Congregazione: 
Non ci rassegniamo a pensare un Medio Oriente senza i cristiani” (21 novembre 2013). 
E’ una affermazione che non può essere dimenticata e va onorata con l’impegno quotidiano di ciascuno: qui voglio ringraziare pubblicamente il Senatore Mauro per l’attività svolta a tutela della libertà religiosa quando era parlamentare europeo. Anche questo è un modo per proclamare almeno nei fatti la fedeltà alle origini cristiane del continente. 

A questa dimensione che chiede tutela per l’identità cristiana in Medio Oriente, va affiancata però quella di un attivo coinvolgimento dei fedeli nella regione, per i quali è necessaria e urgente un’adeguata formazione secondo i principi della Dottrina sociale della Chiesa, come ripetuto da molte voci durante il Sinodo per il Medio Oriente del 2010. Proprio loro potrebbero essere protagonisti nel pensare con amore alla propria patria, secondo un modello di democrazia rispettoso delle tradizioni e delle culture locali e che pertanto non potrà essere semplicemente clonato dall’Occidente. E’ proprio in questo senso che il concetto di “Dhimmitudine” - intendendo cioè uno status giuridico per alcune categorie di non musulmani che vivono in uno stato governato dal diritto islamico -  debba evolvere anzitutto fra i cristiani, che non possono accontentarsi di uno statuto protetto da qualsiasi regime o potere, bensì essere coscienti e capaci, come cittadini a pieno titolo della propria nazione, di edificare il bene comune nelle libertà religiosa e nella libertà di espressione.

4. La Siria, in ultimo, ci interroga anche sul cammino ecumenico: stiamo attraversando un singolare momento in cui l’unità desiderata tra i credenti in Cristo non si può realizzare ancora presso la mensa eucaristica, ma viene vissuta ogni giorno bevendo al calice amaro della passione. Abbiamo in mente tanti volti, tante storie: quelli dei Vescovi Boulos Yazighi e Youanna Ibrahim, greco e siro ortodossi, di padre Paolo Dall’Oglio, del sacerdote armeno-cattolico Michel Kayylal, che ha studiato pochi anni fa presso il Pontificio Collegio Orientale qui a Roma, delle suore greco-ortodosse di Maaloula e di molti altri. 
Papa Francesco nell’intervista concessa al giornalista Andrea Tornielli ha parlato di “ecumenismo del sangue”, concetto già accennato peraltro nell’incontro con il Papa Copto di Alessandria, Tawadros II nello scorso mese di maggio. Le parole su questo tema di Domenico Quirico, egli pure presente col ministro Mauro all’incontro della Comunità di Sant’Egidio, apparse ieri su “La Stampa”, non possono non commuoverci: “Per coloro che uccidono siamo cristiani....  Le parole di papa Francesco mi hanno ricordato quelle di uno dei miei carcerieri, in Siria, quest’anno. Quando mi raccontò come aveva ucciso la famiglia dei suoi padroni, padre, madre e la figlia adolescente che scriveva diari, che ho visto, fitti di cuori rossi come il sangue e di vertigini, di slanci innocenti che gettano la vita al di là di noi stessi; e che li aveva sepolti nel loro frutteto, cose gettate via. Mi disse così: «Li ho ammazzati, erano cristiani… »: non maroniti, cattolici, melchiti, caldei, ortodossi, appunto soltanto cristiani. Che bisogno c’era di specificare, nel loro esser cristiani era la condanna inappellabile e senza vie d’uscita; perfino la sua giustificazione a uccidere”. 

Oltre alla preghiera per tutti i rapiti, e al rinnovato appello alla comunità internazionale perché si adoperi per la loro liberazione, a noi torna la domanda sulla nostra capacità di essere testimoni nel quotidiano, in condizioni esterne certo migliori. Suonano come invito alla riflessione e sprone al cambiamento alcune espressioni dell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium:ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua.. capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci  a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie” (EG 6). 

Proprio nel cuore del dolore della Siria vogliamo ora compiere un interiore pellegrinaggio, a Maaloula, alla grotta ove Santa Tecla trovò rifugio, e alle colline che si accendono di fuochi il 14 settembre per rievocare l’annuncio del ritrovamento della Croce trasmesso da Gerusalemme a Costantinopoli. Vi andiamo con la certezza che “la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1), ma anche con la consapevolezza che le nostre lampade, più che quelle dei nostri fratelli laggiù, sono rimaste povere dell’olio della fede, o forse l’hanno annacquato con tante scelte di “mondanità spirituale”, come ripete spesso Papa Francesco. 
La testimonianza della carità, esemplarmente e quotidianamente vissuta, come ho potuto vedere nello scorso mese di giugno durante le visite ai profughi siriani assistiti da Caritas Libano, Caritas Jordan e Avsi, possa dilatare il nostro cuore, e aiutarci a riaccendere il fuoco di un annuncio di cui il cuore dell’uomo d’oggi ha ancora sete.

Dopo aver ricevuto un filmato  da alcuni  ragazzi siriani, gli alunni della scuola primaria "Pietro Scola" di Lecco  rispondono con un video-messaggio carico di affetto, che ha accompagnato una somma in denaro ( raccolta ritrovandosi a gruppi nelle case per preparare le belle mele di San Nicolò) 
  devoluta al Centro Salesiano di Damasco.





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