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sabato 23 giugno 2018

I religiosi siriani: la vera opera umanitaria, oggi, sarebbe aiutare i siriani a tornare in patria, non a lasciarla.

Per svuotare la Siria una politica pro immigrazione

di Fulvio Scaglione

Visto da Aleppo, la città-martire della Siria che in quattro anni di assedio da parte dell’esercito islamista ha perso per emigrazione (interna alla Siria o verso l’estero) più di metà dei 4,6 milioni di abitanti che aveva prima della guerra, il dibattito europeo sull’immigrazione pare al tempo stesso ingenuo, ipocrita e, ma questa non è una novità, inconcludente.

Per quanta retorica si possa fare, infatti, i migranti non sono tutti uguali, nemmeno agli occhi di coloro che sono più disposti ad accoglierli. E questa dura legge sembra essere applicata, per quanto paradossale possa sembrare, soprattutto ai richiedenti asilo e a coloro che cercano una protezione internazionale. Ed è proprio il “caso Siria” che porta a pensarlo.

Tra il 2011 e il 2016 (ovvero, tra l’inizio della guerra civile e lo snodo fondamentale delle riconquista di Aleppo da parte dell’esercito siriano), più di 11 milioni di siriani (sui 23 milioni di abitanti del Paese) hanno dovuto abbandonare le loro case. La gran parte di loro è rimasta in Siria (più di 6,5 milioni, secondo l’Unhcr) o nei Paesi confinanti (poco meno di 5 milioni di Turchia. Libano, Iraq e Giordania, stessa fonte). Ma più di un milione di siriani ha chiesto asilo politico e protezione in Europa.

Chi si è fatto un minimo di esperienza di Siria in questi anni sa che ad andarsene all’estero non sono stati, necessariamente, i siriani più colpiti dalle atrocità e dalle miserie della guerra. Nella maggioranza dei casi sono riusciti ad arrivare in Europa i siriani più istruiti e benestanti, e quelli che avevano buoni contatti con i Paesi europei.

La diaspora, infatti, era nutrita anche prima di questa guerra, almeno una decina di milioni di persone con comunità cospicue in Germania (500mila persone) e Svezia (150mila) ma folte anche in Austria e Grecia, e chi aveva parenti già residenti sul suolo europeo ha avuto ovviamente vita più facile.

A fronte di tutto questo, i dati (elaborazione del Pew Research Center su cifre Eurostat) ci dicono che i siriani hanno fatto domanda d’asilo e richiesta di protezione in misura almeno doppia a quella di qualunque altra nazionalità. E che l’hanno ottenuta in una misura molto superiore a quella di qualunque altra nazionalità.
Nel 2015 e 2016 le richieste dei siriani sono state accolte (nei diversi Paesi Ue più Svizzera e Norvegia), nella misura dell’80%, assai più di quanto sia stato concesso agli eritrei (68%), ai somali (38%), agli iracheni (36%), ai sudanesi (36%) e agli afghani (22%). La media europea di concessione di una qualche forma di protezione internazionale è del 40%, quindi assai inferiore a quella già citata ottenuta dai siriani. Inoltre, il 52% dei 2,2 milioni di persone che in questi anni hanno chiesto asilo in Europa è ancora in attesa di una risposta, mentre solo il 20% dei siriani sta ancora aspettando. È davvero così stravagante ipotizzare che tutto questo non sia frutto del caso ma di una precisa scelta? Che non sia anche questa assai mirata “benevolenza” un’esca per svuotare la Siria, che l’Europa sottopone a embargo e di tanto in tanto bombarda, delle sue energie migliori? Che la solidarietà e la pietà delle organizzazioni di base non sia sapientemente indirizzata per il raggiungimento di uno scopo politico? 
È una domanda che tormenta, oggi, in primo luogo i rappresentanti delle comunità cristiane. I quali ripetono, ovviamente inascoltati, che la vera opera umanitaria, oggi, sarebbe aiutare i siriani a tornare in patria, non a lasciarla.

http://www.occhidellaguerra.it/migranti-siria-europa/

domenica 17 giugno 2018

Aria di rinascita, a Damasco


di Fulvio Scaglione

(Damasco) Come sempre, i fatti importanti te li rivelano le piccole cose. La strada dal confine col Libano a Damasco già meno sconnessa. I paesini che la fiancheggiano più illuminati. I posti di blocco meno fitti e più rilassati. Nella capitale, poi, il fermento è assoluto. È vero, sono arrivato in tempo per le ultime ore del Ramadan, quando già impazzavano i preparativi per Eid al Fitr, la festa che segna la fine del mese di digiuno e purificazione: alla grande moschea degli Omayyadi erano in allestimento grande tavolate piene di cibo, il suq formicolava di gente impegnata negli ultimi rifornimenti prima che i negozi chiudessero per un week end lungo (Eid al Fitr più il venerdì) di riposo. Ma non è solo questo.
In realtà è scoppiato il dopoguerra. Anche se la  guerra  continua a Sud e a Nord, anche se il presidente Bashar al Assad è comparso in tv per ricordare che “il conflitto sarà ancora lungo”, nell’animo dei damasceni c’è l’insopprimibile sollievo di chi pensa che il peggio è davvero passato. Di nuovo, tante piccole cose lo dimostrano. Certi nuovi caffè del centralissimo quartiere di Bab Touma (la Porta di Tommaso), a grande concentrazione cristiana. I negozietti pieni delle bandiere delle nazionali che giocano la Coppa del Mondo di calcio in Russia. Il modo ormai distratto con cui i soldati, ai posti di blocco, manovrano l’aggeggio che manda impulsi elettronici per far saltare a distanza eventuali auto-bomba. E anche i manifesti dei “martiri” (i soldati, ma anche i cittadini, uccisi da Isis, Al Nusra e altri terroristi), che sui muri di Bab Touma si sono ancora moltiplicati. Un peso di lutti e sofferenze che fa capire perché i damasceni vogliano poter finalmente sorridere e festeggiare, anche a dispetto della realtà.

Perché la pace, a esser realisti, è ancora lontana. I Paesi che hanno investito nella distruzione della Siria non molleranno facilmente, anche se ora sembrano più preoccupati dell’Iran. E la ricostruzione, qui, non è ancora davvero partita proprio perché è legata in modo strettissimo alla questione della pace. Sono due, infatti, i principali ostacoli alla rinascita economica della Siria. Da un lato le forze più produttive, ovvero gli uomini in età da lavoro, sono decimate dalla leva militare o dalla fuga all’estero per evitare la leva, il che è la stessa cosa. Oggi la Siria è mandata avanti da  donne e  anziani, con tutto ciò che questo comporta in un Paese del Medio Oriente.

L’altro impedimento forte sono le sanzioni internazionali, che la Ue tra l’altro ha appena prolungato di un anno. Mutilano le attività economiche e sono una follia totale, perché non sfiorano Assad né i personaggi del suo entourage ma, semmai, fanno soffrire i civili siriani incolpevoli. Sono alloggiato, a Damasco, in una casa delle suore francescane dove sono state ospitate, negli anni, decine e decine di famiglie di malati di cancro che, a causa delle sanzioni, non hanno più modo di trovare i medicinali o di disporre dei macchinari per curarsi adeguatamente. Le sanzioni ottengono questi risultati, non altri.
L'immagine può contenere: 1 persona, cielo e spazio all'aperto
Ma la gente di Damasco, che fino a qualche settimana fa sopportava la pioggia di razzi e colpi di mortaio dai quartieri di Jobar e Harasta e oggi cammina tranquilla per le strade, ha deciso che è ora di essere allegri. Per la prima volta dopo sette anni.

venerdì 23 febbraio 2018

Ghouta, parlano i religiosi di Damasco: "Per quanto tempo ancora si poteva sopportare tutto questo?"


di Fulvio Scaglione, 23 febbraio 2018

Ci sono momenti in cui anche una raffica di kalashnikov sembra nulla. Quella che risuona nel telefono, mentre sono in linea con Damasco e parlo con suor Yola Girges, è la sparatoria rituale che accompagna il funerale di un soldato siriano morto nella battaglia per Ghouta, il sobborgo ancora controllato dai terroristi islamisti.    Suor Yola, nata a Damasco in una famiglia originaria però di Ghassanieh (provincia di Idlib), un villaggio cristiano del Nord dove nel 2013 fu ucciso il francescano padre Francois Mourad e dove tuttora sono insediati i terroristi di Al Nusra, è una delle missionarie del Cuore Immacolato di Maria che lavorano nella casa della Custodia di Terra Santa presso il Memoriale delle Conversione di San Paolo, nella capitale siriana.   Siamo nei quartieri di Tabbaleh, Bab Touma e Dawaleh, dove si concentrano i cristiani. E come molti altri cristiani e religiosi di Siria, anche suor Yola è indignata per il modo in cui la guerra viene raccontata in Europa.
“Oggi, nel quartiere Jaramana, si svolgono i funerali di dodici civili ammazzati dai missili sparati dai ribelli di Ghouta. Due settimane fa un colpo di mortaio è esploso nel giardino della nostra casa. Qualche giorno fa un altro razzo ha colpito un edificio sull’altro lato della strada e tutte le nostre finestre sono esplose. Da settimane, ormai, quando usciamo di casa non sappiamo se faremo ritorno. In questo periodo, inoltre, i terroristi hanno cominciato a colpire proprio quando nelle scuole finiscono le lezioni, per creare ancora più panico. Solo nel nostro asilo, l’anno scorso abbiamo perso quattro bambini, uccisi da un mortaio insieme con il loro papà, e nel 2012 una bambina, ammazzata da un missile per strada insieme con la mamma, che era una nostra catechista. Per non contare i bambini feriti o traumatizzati Eppure nessuno ne parla, nessuno dice niente. Chi si occupa dei nostri morti?”.
Adesso tutta l’attenzione è concentrata su Ghouta e le organizzazioni umanitarie parlano di molti morti tra i civili…    “Bisogna raccontare tutta la verità. Ghouta è un’area di 1800 chilometri quadrati, occupata dai terroristi fin dall’inizio della guerra. In questi sette anni, i razzi da loro lanciati hanno provocato più di mille morti tra i civili nella sola Damasco. Per quanto tempo ancora si poteva sopportare tutto questo? Inoltre, tutti sanno che i militanti dell’Isis e di Al Nusra che si sono concentrati a Ghouta hanno portato con sé le famiglie, che ora usano come scudi umani. Sia per fermare gli attacchi dell’esercito sia per destare la reazione compassionevole del mondo. Nessuno vuole che muoiano dei civili, da nessuna parte. Ma il meccanismo è chiaro”.
La Casa della Custodia di Terra Santa presso il Memoriale di San Paolo è stata testimone fedele, in questi anni, del martirio della Siria. Fondata come casa di accoglienza per i pellegrini, con l’arrivo della guerra si è messa a disposizione di chi più soffriva.
“All’inizio”, spiega suor Yola, “abbiamo accolto 30 famiglie di rifugiati da Homs, dove c’era un quartiere con 75 mila cristiani. Passata quella fase, ci siamo messi a disposizione dei malati, soprattutto quelli di tumore, che dalle più diverse zone della Siria, a causa della guerra, potevano seguire le terapie solo a Damasco. Infine, abbiamo dato alloggio alle famiglie, e purtroppo sono state tante, che avevano deciso di emigrare e dovevano fermarsi qui nella capitale per ottenere i visti. Alcune di quelle famiglie, purtroppo, sono state inghiottite dal Mediterraneo”. 
Negli ultimi anni, comunque, la Casa ha cercato di provvedere ai bisogni dei più deboli e indifesi, i bambini. “Abbiamo un asilo con 150 bambini”, racconta suor Yola, “in maggioranza di famiglie povere o rifugiate a Damasco da zone occupate dai terroristi o investite dai combattimenti. Poi abbiamo un centro catechistico che segue 400 bambini e ragazzi, da quelli delle scuole elementari agli universitari. L’anno scorso, poi, abbiamo avviato un’attività di sostegno psicologico ai bambini traumatizzati dalla guerra che quest’anno, su sollecitazione degli stessi genitori, abbiamo allargato e approfondito. Lavoriamo con bambini fino ai 13 anni e con l’aiuto di dodici volontari, studenti universitari che abbiamo preparato con appositi corsi tenuti da specialisti. Infine, due mesi fa, abbiamo varato anche dei corsi di educazione musicale, anche per dare ai giovanissimi un’alternativa rispetto alle interminabili giornate passate in casa perché è troppo pericoloso giocare fuori. Si sono iscritti in cinquanta ma siamo sicuri che il numero crescerà”.
Adesso, però, le attività della Casa, come quelle di tutte le altre Chiese cristiane rappresentate a Damasco, sono bloccate. Piovono missili e, come dice suor Yola, “non potevamo chiedere ai genitori di rischiare la vita dei figli per portarli qua”. È la Siria, da troppi anni in guerra.
http://www.occhidellaguerra.it/vi-prego-raccontate-la-verita-terroristi-stanno-occupando-la-ghouta/

Viaggio nell'inferno di Ghouta : ecco chi sono i ribelli anti Assad.
Nel 2015 gli abitanti catturati sfilavano in gabbia 

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«Per voi occidentali le uniche vittime sono i civili di Ghouta, ma dimenticate che da quei quartieri partono i missili e i colpi di mortaio diretti contro i quartieri cristiani di Damasco - ricorda nel corso di una telefonata a Il Giornale padre Amer Kassar, parroco della chiesa Madonna di Fatima di Damasco - Solo martedì qui a Bab Touma e al Shaghour, i due quartieri cristiani più importanti di Damasco, abbiamo contato 13 morti e una settantina di feriti. Nell'ultima settimana almeno tre chiese, tra cui il patriarcato greco latino, sono state colpite dalle bombe dei ribelli. Le nostre case distano da Ghouta solo un paio di chilometri in linea d'aria e i ribelli ne approfittano per colpirci senza pietà. Dieci giorni fa Rita una ragazza del mio oratorio è stata uccisa da un colpo di mortaio esploso davanti alla chiesa. Christine, l'amica che era con lei, ha perso una gamba. Ma a voi occidentali non interessa. Per voi quei ribelli sono tutti degli angeli».



Leggi tutto l'articolo di Gian Micalessin qui 

http://www.ilgiornale.it/news/politica/viaggio-nellinferno-ghouta-ecco-chi-sono-i-ribelli-anti-1497525.html?mobile_detect=false

giovedì 22 febbraio 2018

Ghouta come Aleppo, le verità impazzite

Parla padre Mounir di Damasco. «Ghouta non è un quartiere di vittime perseguitate dal regime. È l’esatto contrario. Sono anni che sparano missili sulla capitale, uccidono innocenti, poveri civili»

di Leone Grotti, 22 febbraio 2018

«Lo so cosa scrivono i media da voi in Italia e in tutto l’Occidente sulla guerra che si sta combattendo a Ghouta. Raccontano solo una faccia della medaglia, nessuno si preoccupa del nostro dramma». Si confida così a tempi.it padre Mounir, 34 anni, originario di Aleppo ma residente a Damasco, dove si occupa di un oratorio con oltre 1.200 giovani. Il salesiano fa riferimento ai durissimi scontri di questi giorni tra l’esercito del governo di Bashar al-Assad e le formazioni terroristiche che difendono Ghouta orientale, nella periferia della capitale. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani, organizzazione vicina agli estremisti, negli ultimi giorni sarebbero morte quasi 300 persone nel sobborgo.
«Nessuno però parla dei civili, tanti bambini, uccisi qui dai colpi di mortaio, anzi, dai missili che vengono sparati da Ghouta», continua il sacerdote. Molte scuole nei quartieri di Damasco più colpiti dall’artiglieria ribelle sono state chiuse per sicurezza, al pari di molti negozi. I colpi di mortaio, infatti, cadevano spesso vicini agli istituti e nelle ore di uscita dei ragazzi. Da settimane anche i salesiani hanno dovuto chiudere il loro centro: «Era troppo pericoloso. Noi abbiamo degli autobus che girano per la città e raccolgono i ragazzi per portarli al centro, dove giochiamo, studiamo, facciamo catechismo ma ora per prudenza li lasciamo a casa, perché per strada potrebbero essere colpiti dai missili».
Il bombardamento di Ghouta si è intensificato nell’ultima settimana, perché il governo prepara l’assalto finale per riprendere il quartiere. «Tutto il giorno si sentono gli aerei dell’esercito che sorvolano la capitale. Spero che l’attacco cominci presto e che la zona venga finalmente liberata, come è stata liberata Aleppo», continua padre Mounir, ricordando che «Ghouta non è un quartiere di vittime perseguitate dal regime, come raccontate voi. È l’esatto contrario. Sono anni che sparano missili sulla capitale, uccidono innocenti, poveri civili. Quanti sono i bambini morti qui di cui nessuno parla? Questi non sono l’opposizione, sono terroristi, vengono da ogni parte del mondo, e l’esercito siriano ha il diritto di difendere la dignità dei siriani e il paese».
Il prossimo mese la Siria entrerà nel suo ottavo anno di guerra e padre Mounir non si fida più delle trattative di pace condotte dalla comunità internazionale: «Non stanno risolvendo niente, parlano ma non fanno nulla». Il sacerdote è stato ordinato cinque anni fa a Torino, ma ha scelto di lasciare l’Italia e tornare a Damasco per «servire il mio popolo in difficoltà». In questi giorni, però, le sue attività sono limitate al minimo perché «il governo ha consigliato a tutti di non muoversi di casa, se non per attività strettamente necessarie, perché molte zone della capitale sono sotto tiro. Nonostante questo cerchiamo di stare vicini ai nostri ragazzi e alle nostre famiglie».
Pare Mounir ha vissuto in Italia, ma ora non riesce più a leggere i giornali nostrani: «Ho visto come date le informazioni: sempre parziali, sempre nascondendo una parte della verità, addirittura truccando le foto», continua. «Voi di Tempi siete tra i pochi che avete il coraggio di raccontare tutta la verità. Io lo so che il governo siriano non è costituito da santi né da angeli, c’è la corruzione come in tanti altri paesi. Però dovete capire che la maggioranza della popolazione siriana, che soffre come e più degli altri, si fida di questo governo, nonostante i suoi sbagli. Voi europei invece appoggiate i terroristi che colpiscono la gente innocente. Questo è inaccettabile e qualcuno deve dirlo».

Il conflitto nel Ghouta e la memoria corta dell’Occidente

nella foto a sinistra le vittime di questi ultimi 3 giorni nella capitale
Damasco, a destra le milizie che occupano Ghouta 
di Mauro Indelicato, 22 febbraio 2018

Spesso si afferma che in guerra la prima vittima è la verità, resa parziale da ogni parte e resa quasi del tutto strumentale dagli attori presenti sul campo; ma in realtà, ciò che ancor prima della verità viene tolto di mezzo da un determinato conflitto è la stessa memoria: tutto viene resettato, anche la stessa storia viene resa funzionale al racconto ed alla narrativa imposta da chi vince o da chi, invece, spera di vincere. La memoria corta è una delle piaghe che affligge l’informazione inerente il conflitto siriano; è vero che fanno male le bombe russe, così come quelle americane ed è altrettanto vero che a causare vittime civili spesso sono sia i kamikaze delle sigle jihadiste così come i raid dei governativi, pur tuttavia dimenticare cosa accaduto e come si è arrivati al fatidico numero sette nel conteggio degli anni di guerra siriana, appare operazione scellerata e, nella migliore delle ipotesi, frutto di disonestà intellettuale. A prescindere da ogni considerazione politica che si possa avere su Assad e sul suo governo, dimenticare che la Siria non è stata attraversata da una vera ‘rivoluzione’ ma invasa da orde di jihadisti, stranieri e non, fa perdere di vista ogni giudizio obiettivo sul conflitto.

Cosa è accaduto nel Ghouta Est tra il 2012 ed il 2013

Proprio come accaduto nella zona est di Aleppo, non appena il legittimo governo siriano si prepara a strappare un determinato territorio alle sigle jihadiste, si scopre che il paese arabo ha un numero di ospedali per abitanti tra i più alti al mondo ed una quantità di edifici scolastici da fare invidia anche ai paesi più industrializzati; nel Ghouta l’operazione volta a strappare dalle mani takfire gli ultimi brandelli di una Damasco che da cinque anni vive con lo spettro di razzi e missili lanciati verso il centro, è iniziata da pochi giorni ma già nel mondo dell’informazione occidentale circolano gli stesso video visti e rivisti per Aleppo e per Homs, dove i raid russi e siriani vengono dipinti come brutali mezzi in grado di distruggere ogni volta strutture ospedaliere ed obiettivi sensibili.   Ben lungi dall’esultare per l’arrivo sulle teste di tanti civili di bombe e colpi d’artiglieria, è utile però ricordare il motivo per il quale questa crisi non è possibile risolverla per vie diplomatiche: nel Ghouta Est risiedono alcune delle più pericolose sigle jihadiste che hanno messo piede in Siria, tali gruppi nell’estate del 2012 hanno cinto d’assedio la capitale siriana prima di rintanarsi in questa regione posta nella periferia orientale damascena. Gli abitanti del Ghouta Est sanno bene cosa vuol dire aver iniziato a convivere con la presenza di uomini barbuti inneggianti alla jihad; molti civili hanno visto portare via le proprie mogli, i propri figli ed i propri affetti da terroristi che non hanno avuto scrupoli nel rinchiudere centinaia di innocenti in gabbia per piazzarli sui tetti dei palazzi, in modo da utilizzarli come scudi umani contro i raid governativi. Specialmente tra il 2012 ed il 2013, quando si è ben capito come l’offensiva jihadista non era destinata a centrare l’obiettivo a Damasco, la scure della follia islamista si è abbattuta nei quartieri della capitale e del Ghouta est da loro controllati;  ma non solo: nel novembre 2015 hanno fatto il giro del mondo le immagini di un corteo, composto da almeno cento gabbie con all’interno almeno sette od otto persone, sfilare lungo una città del Ghouta in un’atmosfera di gogna che ha poi preceduto l’allocazione di tali gabbie sopra i tetti dei palazzi più alti. 
 
Non c’erano nemici o militari dentro quelle sbarre improvvisate, bensì solo civili colpevoli di essere alawiti come il presidente Assad; un’azione criminale di inaudita crudeltà, compiuta tra gli sguardi attoniti dei mariti che vedevano le proprie mogli rinchiuse come animali e portate chissà dove, senza forse la possibilità di rivederle. Il Ghouta Est è dal 2012 occupato, è questo il verbo giusto da utilizzare, da gente senza scrupoli ed i cui atti criminali sono inqualificabili oltre che ingiustificabili; gruppi di terroristi armati e sostenuti, politicamente e non solo, da quei paesi che hanno da subito appoggiato la presunta rivolta siriana anti Assad in nome proprio della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Un’accozzaglia di integralisti e terroristi che dal 2012 tiene sotto scacco Damasco, non solo intesa come sede del governo siriano, ma come città dove vivono almeno due milioni di persone la cui quotidianità è provata dal pericolo di uscire da casa e beccarsi un colpo di mortaio sparato dal Ghouta.Come viene vissuta a Damasco la nuova operazione

Intanto, mentre si fa riferimento da più parti alle conseguenze dei raid siriani e russi nelle città del Ghouta, nel cuore della capitale siriana la popolazione vive nel terrore delle ritorsioni islamiste per l’operazione avviata dall’esercito fedele ad Assad; nella giornata di lunedì, un razzo ha colpito un taxi in una delle vie più trafficate di Damasco, uccidendo un civile. Questo è soltanto l’ultimo episodio che vede la città più popolosa della Siria essere oggetto di attacchi a colpi di mortaio e razzi da parte delle sigle che controllano il Ghouta, i quali non hanno mancato di provocare nell’ultimo mese ancora morti e feriti; la percezione di una sicurezza sempre più precaria rischia di impadronirsi degli animi dei damasceni, anche se la popolazione continua a vivere la sua quotidianità nella speranza che l’assalto alle posizioni delle sigle jihadiste a pochi chilometri dal centro possa finalmente allontanare per sempre la guerra dalla città. 
Soffrono sia i damasceni che gli abitanti del Ghouta Est, del resto gli innocenti sono tali in quanto parti non direttamente in causa del conflitto ed è per questo che da entrambe le parti essi vivono il comune destino di essere vittime di un qualcosa più grande di loro; pur tuttavia, dimenticarsi cosa accaduto in questa regione già cinque anni fa, omettendo le crudeltà commesse da chi ha occupato questa zona, è un’operazione che rischia di prolungare l’agonia di milioni di civili, siano essi di Damasco, del Ghouta o di altre zone di questo martoriato paese.

http://www.occhidellaguerra.it/conflitto-nella-ghouta-la-memoria-corta-delloccidente/

sabato 6 gennaio 2018

Magari per sbaglio, ma i castelli della propaganda finalmente si sfaldano...


di Fulvio Scaglione

In forma dubitativa, con ampio uso di condizionali e tra mille distinguo. Però adesso anche uno dei più diffusi quotidiani italiani si è accorto che il famoso Osservatorio siriano per i diritti umani, installato nel Regno Unito, non è la bocca della verità. Che è “gestito da una sola persona”, la quale non ha mai dato conto di quali siano in realtà le sue fonti.
Questa persona si chiama Rami Abdulrahman, risiede a Coventry da molti anni e quando ancora viveva in Siria era un noto oppositore di Bashar al-Assad. La cosa in sé va benone, siamo o no per la libertà di opinione e di parola? Ma va un po’ meno bene quando ti atteggi a informatore libero e imparziale. Lo stesso articolo non cita mai Abdulrahman ma aggiunge che l’Osservatorio “sarebbe finanziato da… agenzie occidentali, britanniche in particolare”, e in realtà è finanziato dal governo inglese. Che non ha mai raccontato la verità sui misfatti delle bande armate comunque definite “ribelli”, anche quando erano i tagliagole dell’Isis o di Al Nusra (ex Al Qaeda). E che le più accreditate agenzie internazionali, per esempio il Comitato internazionale della Croce Rossa, non hanno mai potuto confermare le affermazioni del suddetto Comitato contro l’esercito regolare siriano, accusato di affamare le popolazioni di molte città durante le operazioni militari.

Alla buon’ora. Ci sono voluti anni, e migliaia di articoli in cui invece l’Osservatorio era presentato come una fonte “terza” e affidabile, ma alla fine si fa strada la verità. Per i non moltissimi che, come noi, la ripetevano in tempi non sospetti, è comunque una soddisfazione.
Sarebbe una soddisfazione da poco, però, se restasse confinata in un bambinesco “io l’avevo detto”. Questo non conta niente. Conta molto, invece, il fatto che la gran parte dei media abbia raccontato l’atroce guerra civile siriana con un preconcetto che non poteva non distorcere la realtà. Poiché il cattivo era Assad, tutto ciò che andava contro Assad era buono. E se non era buono, comunque serviva alla causa. E quando la realtà smentiva la teoria, i suddetti media facevano come i leninisti e gli stalinisti di una volta e dicevano: è la realtà che sbaglia. È ciò che pensavano i politici americani, sauditi, turchi, inglesi, francesi. Ma appunto i politici. La stampa dovrebbe essere il loro cane da guardia, non la loro ancella.
Così l’Esercito libero siriano, diventato ininfluente dopo pochi mesi di conflitto, è stato raccontato come un protagonista. L’interventismo della Turchia e delle petromonarchie del Golfo Persico, grandi finanziatrici di Isis, Al Nusra e Fratelli Musulmani, mai sottolineata, e amplificata invece quella di Iran ed Hezbollah. Ogni civile morto era ucciso dai russi. Quando saltavano fuori le fosse comuni piene di persone assassinate dall’Isis e dagli altri gruppi “ribelli”, un riquadrino a pagina 38. La montagna di balle e distorsioni pian piano ha preso dimensioni tali da non poter più essere smantellata senza esserne travolti.


Lo si può fare adesso, come vediamo, perché l’Isis è stato sconfitto e la Siria sta uscendo dalle prime pagine. Il meccanismo, però, ha girato fino all’ultimo. Chi non ricorda le articolesse grondanti sdegno per la carneficina di Aleppo? I cannoni falciavano senza sosta i civili, l’ultimo pediatra-l’ultimo pompiere-l’ultimo blogger cadevano sotto i colpi, i bambini morivano come mosche, e tutto per colpa dei russi e degli assadiani. Pochissime parole erano state spese, negli anni precedenti, per compiangere gli aleppini bombardati giorno e notte dai “ribelli”, privati di acqua ed energia elettrica, chiusi nella parte occidentale della città e decimati giorno dopo giorno, ma pazienza. I nostri e i loro, serie A e serie B.
Poi è arrivata, in Iraq, la campagna per la liberazione di Mosul, occupata nel 2014 dall’Isis. La lunga battaglia (da ottobre 2016 e luglio 2017) è stata raccontata come una missione di gloria, tutta bella pulitina, una bomba intelligente qua, una incursione chirurgica là. Questa, sì, una cosa ben fatta.
Purtroppo sono, anche qui, arrivate le notizie vere. Gli alti comandi militari Usa parlavano di mille civili morti, e invece secondo le ricerche dell’Associated Press sono almeno 11mila. E il presidente della Commissione d’inchiesta istituita dal Parlamento iracheno, Kakim al-Zamely, ha raccontato di 23 mila militari caduti in battaglia, con oltre 70 mila feriti. In questo caso, però, nessun ultimo pediatra, nessun Elmetto Bianco da candidare al Nobel per la Pace, pochissimo sdegno e via andare.

Ma il crimine più grave di questo modo di fare (dis)informazione è un altro. Sta nel fatto che è stata tolta dignità a una larga parte della popolazione siriana. Il punto non è e non è mai stato decidere se il presidente siriano è un benefattore dell’umanità o un aguzzino. Dibatterne non è lecito ma doveroso.   Quello che non si doveva fare, ed è invece stato fatto, era decidere che chi non era dalla parte dei “ribelli” era un collaborazionista, un complice, un uomo o una donna in malafede, quasi di sicuro un corrotto, forse un potenziale assassino. Milioni di uomini e donne, dai vertici delle Chiese cristiane agli operai delle fabbriche distrutte, sono stati trasformati in mostri perché non la pensavano come opinion makers e giornalisti che nella maggior parte dei casi non sapevano nulla della Siria e men che meno si sognavano di metterci piede. Quel che quei milioni di siriani sentivano, ciò che loro a torto o a ragione pensavano, era senza valore. Loro stessi erano senza valore.
Anche chi non professava perfetta fede nelle veline dell’Osservatorio di Coventry era un “amico di Assad”. Curioso ma significativo: chi ci sputava addosso queste accuse non si faceva mai il problema di essere, per il suo stesso modo di ragionare, un amico dell’Isis.

giovedì 20 aprile 2017

Stragi di bambini in Siria: 2 Fouaa e Kafarya, il massacro che Trump non piange


Gli Occhi della Guerra, 19 aprile 2017

In tanti, nella giornata di sabato, hanno raccontato l’orrore di Rashideenn, ossia la località dove sorge l’area di servizio lungo l’autostrada M5 dove è avvenuto l’attentato contro civili sciiti che ha ucciso più di cento persone, molti dei quali bambini; in pochi però, hanno fatto riferimento tanto ai responsabili dell’accaduto, quanto al contesto attorno al quale è avvenuto uno degli episodi più cruenti della guerra siriana, macabro nei numeri ed ancor di più nei dettagli. Quello di sabato in Siria, non era un ‘semplice’, se così si può definire, trasferimento di profughi, bensì si trattava dell’evacuazione di due comunità di altrettanti villaggi a maggioranza sciita (Kafraya e Foua) da anni minacciati dagli islamisti definiti ancora ‘ribelli’ da buona parte dell’occidente; oltre a mettere al sicuro questi civili da future e probabili rappresaglie jihadiste, l’operazione aveva come obiettivo quello di mostrare la buona volontà delle parti in causa di poter giungere a piccoli accordi locali in grado di salvaguardare i cittadini maggiormente esposti al conflitto e, in tal senso, il boicottaggio delle forze islamiste è stato espresso in tutta la sua brutalità.

Non era la prima volta che in Siria, dallo scoppio della guerra, si procedeva ad un’evacuazione e ad un trasferimento della popolazione da un punto all’altro del paese dopo accordi tra le parti; questa strategia è stata inaugurata già nel 2014 quando, una volta accerchiati e senza possibilità di vittoria, gli islamisti presenti ad Homs hanno accettato l’evacuazione del centro storico ed il loro trasferimento in zone presidiate dai gruppi dell’opposizione. Tra il 2016 e questa parte di inizio anno, diverse volte questi accordi hanno permesso la fine delle ostilità in diverse località senza ulteriore spargimento di sangue: a Darayya, sobborgo nel sud di Damasco, il trasferimento ad Idlib di militanti islamisti e famiglie al seguito, ha messo la fine su una delle battaglie che più ha tenuto con il fiato sospeso la capitale della Siria, stesso scenario in altri quartieri damasceni ed in altre località attorno la città.
Anche ad Aleppo si è provata la stessa strada: i famosi ‘bus verdi’, che prima della guerra erano i normali mezzi del trasporto pubblico della metropoli siriana, per giorni sono rimasti stazionati ai limiti del fronte che divideva le zone governative da quelle occupate dagli islamisti, per cercare di far andare a buon fine le trattative tra Russia, Turchia e sauditi ed evitare ulteriori scontri nel centro urbano. Soltanto nelle battute finali della battaglia per riprendere la seconda città siriana tali accordi hanno fruttato l’evacuazione delle ultime zone rimaste in mano jihadista, nonostante altri tentativi di sabotaggio costati la vita ad alcuni autisti di bus attaccati dai terroristi; le trattative, oltre al trasferimento dei cosiddetti ‘ribelli’, hanno spesso previsto l’alternativa della riconciliazione con il governo di Damasco dove, in cambio della deposizione delle armi, si viene reinseriti all’interno del contesto sociale e, se non si è accusati di gravi crimini, si evitano i processi per tradimento.

l trasferimento in atto sabato, è stato frutto di uno di questi accordi locali mediati da alcuni attori internazionali in campo; in particolare, le trattative in questo caso sono state condotte da Iran e Qatar ed il perché è presto detto: oggetto principale dei colloqui era l’evacuazione di due cittadine sciite e la Repubblica Islamica si è fatta promotrice della messa in sicurezza dei civili di fede sciita. L’accordo è inserito in un contesto molto più ampio, che abbraccia situazioni simili nel resto del paese: in cambio del trasferimento dei civili da Kafraya ed al – Foua, l’esercito siriano ha permesso l’evacuazione dei terroristi dalle sacche jihadiste di Madaya e Zabadani, due località della ‘Rif’ di Damasco; in tal modo, risultano evidenti anche vantaggi militari sia per il governo che per gli islamisti: le forze di Assad possono riprendere il controllo di due centri vicino la capitale, le forze che controllano di Idlib invece si garantiscono l’eliminazione di una sacca governativa vicino il capoluogo di provincia.
Pur tuttavia, all’interno di questo accordo, vi è presente una novità importante:  è infatti la prima volta che ad essere evacuati sono soltanto civili e non militari o ribelli ed inoltre, è stata anche la prima volta del trasferimento da località in mano governative.  Kafraya ed al – Foua, sono infatti due cittadine a maggioranza sciita che però si sono ritrovate nel bel mezzo di una provincia in cui islamisti e jihadisti hanno iniziato ad imperversare dall’inizio della guerra; l’esercito siriano ed alcuni reparti degli Hezbollah hanno garantito, in questi anni, la sicurezza delle cittadine la cui difesa però, forse anche in previsione dell’offensiva governativa su Idlib, è diventata ad un certo punto molto difficile ed onerosa. L’evacuazione dei civili quindi, secondo l’accordo, ha avuto anche lo scopo di liberare diversi reparti dell’esercito e del movimento popolare libanese e poter in questo modo meglio distribuire mezzi e uomini su altri fronti.
Mentre i trasferimenti da Zabadani e Madaya sono andati a buon fine, con i bus arrivati  ad Idlib, quello dei civili sciiti invece ha subito il grave attacco di sabato; un convoglio di mezzi che trasportava i cittadini di Kafraya ed al – Foua, mentre era giunto a Rashideenn, a pochi chilometri dall’ingresso ad Aleppo e dunque nelle zone governative, è stato raggiunto da un’autobomba.

Secondo alcuni testimoni, pare che l’ordigno sia stato azionato mentre nell’area di servizio un uomo aveva fatto avvicinare dei bambini al mezzo poi esploso offrendo loro alcuni pacchetti di patatine; un gesto macabro e che lascia senza fiato e parole, compiuto con il solo scopo di uccidere i civili e creare terrore tra i sopravvissuti. Un gesto però che, dopo alcuni servizi televisivi in cui non sono mancate omissioni di dettagli e dove, allo stesso tempo, non è stato spiegato il contesto dell’evacuazione di questi profughi, è ben presto passato in sordina e nel dimenticatoio.
Dopo l’arrivo dei soccorsi, alcuni dei quali inviati dalla Croce Rossa presente nel vicino quartiere governativo di Hamadaniyah, i bus non colpiti dall’esplosione hanno ripreso il proprio cammino e sono arrivati ad Aleppo, concludendo poi l’evacuazione di Kafraya ed al – Foua; pur tuttavia, non può non rimanere vivo il ricordo dei tanti civili uccisi, che si aggiungono ad una lista oramai troppo lunga dopo sei anni di conflitto.

Rimane anche, tra le altre cose, la constatazione del fatto che continuare a considerare ‘moderati’ i ribelli di Idlib è operazione intellettualmente disonesta e che non favorisce i tentativi di far concludere la guerra nel più breve tempo possibile; se è vero che alcuni gruppi islamisti hanno preso le distanze dall’attentato, è anche vero che se si è avuta l’esigenza di evacuare i civili dalle due cittadine sciite vi era evidentemente il concreto pericolo di rappresaglie jihadiste che, di certo, non sono sintomo di ‘moderazione’ e di volontà di dialogo. Prima l’intero occidente prende definitivamente le distanze dai ‘ribelli’, prima si potrà far chiarezza su tutti i fronti che riguardano il conflitto siriano.


A completamento dell'articolo, un'ulteriore terribile notizia: per rendere le cose ancora peggiori, durante l'attentato oltre 200 civili da Foua e Kafraya sono stati rapiti nella zona Rashideen. La maggior parte dei rapiti sono ragazze giovani.
Secondo una fonte di Al-Masdar news, si ritiene che gli abitanti sciiti di Fouaa e Kafraya siano stati rapiti da Hay'at Tahrir Al-Sham (HTS), una fazione ribelle affiliata ad Al Qaeda, che è accusato di aver ucciso 126 civili nell'attacco con un'autobomba ieri “

mercoledì 11 gennaio 2017

“This is the Way We Lived Under the rule of Isis”


 By FULVIO SCAGLIONE

Aleppo, Jan. 9.  First he shelled out 400 dollars to a people smuggler who knows the trails in the desert. Two others were with him. Then, during the night, when the little group arrived near the areas under the control of the Kurds, in the North of Syria, it was fired on because the peshmerga feared they might be terrorists approaching with explosives in their belts. One of his companions was wounded in the leg, so they had to turn back, reach a village, and pay another smuggler to find them shelter for the night, and then cross the line. This is how Riad, 32, a degree in Turkish Literature, managed to leave Mayadin, one of the Syrian towns on the border with Iraq which are still under the domination of Isis, He had been trapped there since Isis had taken over the area in 2014.

Mayadin is along the road that goes straight to Deir Ezzor (which has been under seige by Isis since two years ago) and to Raqqa, Al Baghdadi’s capitol city. Riad can therefore supply a first-hand account of what goes on in the heart of the Caliphate, where he has left behind his mother, two elder brothers, and a bevy of cousins.I couldn’t stand it anymore”, says Riad. With those guys anything can happen to you at any time of the day. I’ve always tried to be  prudent but nonetheless I had to submit to two periods of a month each in the re-education camps.
They start out by indoctrinating you for days on end. Their favorite subjects were: why Egypt, Syria, Italy, the US and many many other countries are full of infidels; why it is lawful to burn certain people alive, such as the Jordanian pilot or the two Turkish pilots; why it is right to cut other people’s throats; why it is a duty to prevent people from leaving the places where Muslims live in order to get to those inhabited by infidels. We were fed constant quotations from  Ibn Taimiya (a jurisconsult of Medieval Islam, rediscovered by Wahhabis and the Salafis  and known for having issued a fatwa which allows jihad against other Muslims), the same things got repeated over and over for hours”.

In other words, religion lessons…
No. The real purpose gets revealed later. In these camps there were about three or four hundred men, who were then transferred to Deir Ezzor and forced to dig trenches and tunnels in the airport, which is partly occupied by Isis. In other words, it was forced labor for the jihad. When they finished with one group they brought in another one. There was no way of rebelling, a mere trifle could get you killed”.


So how come you ended up in this camp?
I was detained because my jellaba (the traditional islamic tunic) was too short at the ankles. Clearly an excuse”.


Is it really so dangerous to live under the Isis militia?
Of course it is. Between what has happened to friends and acquaintances of mine and what I have been told by others, I have dozens of stories that make one’s hair stand on end. For example, I know about a boy who had decided to enlist with the Islamic State. His father did everything in his power to stop him, he insulted him, they quarreled. So the boy denounced his father, who was promptly executed, in public. A friend of mine instead quarreled with a Saudi militiaman. They came to get him, they tortured him, they killed him and then they exhibited his body in the public square. They put a sign on the body that read: “He insulted a fighter for islam”. And so on and so forth.


Doesn’t sound like enlisting is a good idea.
Actually, it depends. If it’s a Syrian who is enlisting, his salary will be 100 dollars a month. But those who come from abroad, Tunisians, Turks, Saudis and Europeans, get much more, not less than 500 dollars. In any case, it’s a lot of money for the standard of living of those places. And there’s also a  big difference in how they treat you. Syrians and Iraqis run a lot more risks, because they are almost always sent to the front lines, to fight. In the positions of command and in the administration are almost always taken by foreigners, who are therefore a lot less at risk. It’s a system that allows them not to lose control of the situation, in order not to be betrayed”.


And who keeps tabs on you, ordinary people?
There are two police forces. The first one is called “Security”, which deals with mores:  misdemeanors such as wearing jeans, wearing your beard too short. As I said, they are principally to rake up men to oblige to work for free. The Security is constantly  checking on people even in the two internet points in town. If they catch you looking at any anti-Isis websites or pornographic websites, there’s the death penalty. If you have songs downloaded in your cell phone you get  40 lashes. If a woman’s eyes are excessively uncovered, she is fined 2 grams of gold. Then there is the actual police, which is supposed to deal with criminals and which doesn’t count at all”.
But does the town work? Trade, manufacturing …

Our area, like that of Deir Ezzor, lives on oil. And Isis does too, as it  traded it with Turkey”.
Traded? Why do you speak in the past?
Yes because first the Turks left the border between the cities of Tall Abyad and Jarablus (in Syria) which was where all the trading went on: oil in exchange for money, arms, ammunition.  But since Russia and Turkey have came to an agreement, that border has been sealed and therefore it is much more difficult to trade in oil.  In the last few years Isis has continued to extract oil but with more and more rudimental means. Pollution, which was already heavy, has increased greatly. I’m convinced that it is for this reason that there are so many more cases of cancer: from 40 cases a month in 2014 to 180 a month today. I know because I work part time in a lab and the sick now almost all end up at the hospital in Mayadin which, among the ones still under Isis, is the most efficient”.


Well, if the oil bonanza is over, where does Isis get its money?
Well, in the last two years they managed to accumulate a lot. For example, they gave the grave robbers leave to dig wherever they liked, and accordingly they have looted the archeological sites. The deal is: you get a third of the value, two thirds go to Isis. If you try and go it alone, you get the death penalty. And then, of course, there is also some trading because the merchants are allowed to come and go from Syria to procure their goods. This way Isis  makes a profit twice: with the kickbacks and with taxes. In this case too I know what I’m talking about because one of my brothers has a shop and it is he who ultimately supports the whole family.  

What about your other brother?
He used to be a journalist but now he’s a taxi-driver on a motorbike”.


In your opinion, how has Isis managed to resist for so long?
Because it gets help”. 


From whom?
All of us, there, are convinced that it’s the Americans. Almost every day we hear helicopters flying over our heads and then we see loads of supplies coming into town. So who can it be, in that region, who can fly about freely, if not the Americans? 


Well, what do you think: will Isis eventually be defeated?
Yes. I hope by the end of this year”.

(traduzione in inglese di Alessandra Nucci )
http://www.occhidellaguerra.it/cosi-si-viveva-lisis/

lunedì 9 gennaio 2017

"Here is How We Lived in East Aleppo” 


By Fulvio Scaglione

Aleppo, January 8th 2017. He lets us film him, but Mahmud Fahrad is not his real name. He’s afraid of retaliation in this devastated city of Aleppo, where few people think that all of the jihadis have really left for good, on the coaches supplied by Assad to get to Idlib. Because this bricklayer who lost his job years ago and has had to make ends meet with a wife and four children, wants to let people know what life was like in East Aleppo, under the rule of the rebels and jihadis.

“We were trapped there since March 2012, when it all began,” says Mahmud, “And they were four years of horror. For example, they starved us. In these years I never ate either meat or fruit, it was almost always lentil beans and burghul (split wheat). Even bread was scarce. And all the while, they had plenty of everything and ate all they wanted. Their deposits were full and they mocked us: when there was a holiday, they would slaughter sheep and cows and sell off the scrap pieces, such as the shins or the entrails, at 10,000 Syrian liras a chilo, i.e. the price of the choicest meat.

And what about the hospitals? They say that the army bombs killed a lot of people….

“Bombed hospitals? Maybe. All I know is that they were off-limits to us normal Alepins. They were reserved to them and to their families. When one of us got hurt or had some health problem, they would shut the door on us even if we died. I never saw anyone, in the entire four years, being admitted to a hospital”.

Who exactly are these “they” that you are talking about?

“There were loads of foreigners, almost from everywhere in the world. Especially after the army started to get closer. We could recognize them, as they went around the streets on in the marketplaces, Because they needed someone to help them with the language. So we heard them say that so and so was French, this other one was American, another Turkish…. There were also many Saudis, Egyptians, some Japanese. But at the end of the day, they all resembled each other.”

What do you mean?

“Look, these people here don’t pray to Allah. The God they pray to is the Dollar. The various groups had divided that part of town among them and first and foremost they tried to get as much money as possible out of it, at the expense of the defenseless people. Every so often they would kill each other on account of money. Say one of the heads got too daring, and went beyond his allotted area: a bomb under his car would take care of everything. Politics…. Maybe. But these people had three main passions. The first one, like I said, was money….”

And the second one?

“Sex. They went crazy, also because they felt omnipotent. Any one of these guys could do you in with impunity, no one would have lifted a finger to save you. There were two ways they used to try to get women. They tried to buy them, by taking advantage of the people’s poverty. There were families who gave a daughter away for 100 dollars, or even for just a few bags of rice and lentils. Or else they took them away by threatening them with violence. For example by threatening to kill their parents. Today Aleppo is full of so-called “widows”. Women who were forced to marry a militiaman who died or ran away, women whom nobody wants now, not even their original families”.

And the third passion …

“Shooting, killing. Before starting out for a raid they took some pills that were rumored to come from Turkey. I don’t know what they were, but after swallowing them their eyes opened wide and they became frenetical. Among them there was a great deal of trading going on in hashish and other drugs”.

And what about prayer? Islam?

“They forced us to go to the mosque but that stuff had little to do with our religion. There were Pakistani and Egyptian preachers and the only subject they ever broached in their sermons was war, jihad, the duty to fight the apostates. In sum, all they ever talked about was killing people”.

(traduzione in inglese di Alessandra Nucci )