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sabato 2 marzo 2013

Confessioni di un inviato a Damasco





da TEMPI, 2 marzo 2013
di Rodolfo Casadei

Come si sente un inviato che torna dalla Siria dopo aver trascorso una settimana nel martoriato paese in aree controllate dalle forze governative e si imbatte nelle notizie che i media italiani danno della riunione degli “Amici della Siria” a Roma, in particolare le dichiarazioni del segretario di Stato americano John Kerry e del ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi? Si sente male. Perché il quadro della situazione che queste persone disegnano e giustificano – un regime dittatoriale che opprime il suo popolo e si macchia di crimini di guerra contro la popolazione civile e un’opposizione che ha bisogno del sostegno della comunità internazionale per prevalere e portare la democrazia nel paese- è lontanissimo dalla realtà. L’idea che grazie a Usa ed Europa in Siria entrino altre armi – “non letali”, perché tanto a quelle letali ci pensano già i paesi arabi sunniti come Qatar, Arabia Saudita e Turchia – in aggiunta a quelle che già ci sono dall’una e dall’altra parte, dà semplicemente la nausea. Da quando in qua per spegnere un incendio si butta altra benzina sul fuoco? Forse da quando non si ha il coraggio -o più probabilmente l’interesse- a guardare in faccia la realtà nella totalità dei suoi fattori.

E allora è certamente vero che le forze governative -esercito, servizi di sicurezza, milizie di civili armati- si sono macchiate di crimini di guerra con esecuzioni sommarie, torture, violenze su civili, stragi gratuite, arresti indiscriminati e maltrattamenti nelle prigioni. Io questo non l’ho potuto accertare di persona, ma mi fido di Human Rights Watch e di altre organizzazioni che lo hanno attestato nei loro rapporti. Vorrei però modestamente aggiungere che una settimana trascorsa in Siria nelle aree più o meno precariamente controllate dalle forze governative mi ha consentito di toccare con mano il terrore in cui vivono le popolazioni di quelle zone, quotidianamente esposte alla minaccia di autobombe, colpi di mortaio e rapimenti – sia da parte di elementi criminali che di bande di ribelli -, che giorno per giorno si traduce in realtà.
Nel comunicato diffuso dalla Farnesina al termine dei lavori degli “Amici della Siria”, basato sulle dichiarazioni dei ministri degli 11 paesi presenti, si legge fra l’altro che «Il regime deve porre un termine immediato ai bombardamenti indiscriminati contro le aree popolate perché si tratta di crimini contro l’umanità e non possono rimanere impuniti».
Giovedì 21 febbraio sono arrivato a Damasco poche ore dopo che due autobombe, opera di ribelli jihadisti, erano esplose a Mazraa e Barzeh, nel cuore della città, uccidendo 52 civili. Nei giorni seguenti ho visitato alcuni dei feriti scampati all’eccidio. Fra loro una signora, madre trentenne divorziata con due figli adolescenti, che è rimasta sfigurata al volto dall’esplosione. Si tratta di una profuga, musulmana sunnita come tutta la sua famiglia, che ha dovuto abbandonare la casa dove abitava coi genitori nel sobborgo di Ein Tarma a causa degli scontri fra governo e ribelli. Era stata accolta in una moschea vicina al luogo dell’attentato. Il fratello ha protestato davanti alle telecamere della televisione, gridando «è questa la libertà che ci vogliono dare?», e subito gli sono arrivate minacce di morte da parte dei ribelli. In una stanza poco lontana dello stesso ospedale giace un ragazzo palestinese di 15 anni del campo profughi di Yarmuk, alle porte di Damasco. Un cecchino di parte ribelle gli ha aperto tre fori nell’addome, ai quali è miracolosamente sopravvissuto. È andata peggio a quattro suoi amici della sua stessa età, che nel giro di tre mesi hanno perso la vita per il fuoco dei cecchini. Il ragazzino, di cui taccio il nome per tutelare la sua incolumità, mi ha spiegato che dopo essersi limitati per qualche tempo a sparare agli uomini, adesso i cecchini dei ribelli sparano anche alle donne e ai bambini di certe aree del quartiere palestinese. A un bambino di 9 anni, suo compagno di stanza fino al giorno prima che io visitassi l’ospedale, è stata amputata una gamba ferita.

A Damasco non c’è stato giorno, dei quasi cinque che vi ho trascorso in due riprese, senza che cadessero sui quartieri del centro colpi di mortaio lanciati contro obiettivi governativi, ma in realtà non meno imprecisi delle bordate di artiglieria sparate dall’esercito contro i quartieri della periferia in mano ai ribelli. Quando mi sono spostato nelle province del nord-est, ho incontrato famiglie e studenti cristiani in fuga per le continue minacce di morte e di rapimento da parte sia di elementi della criminalità, scatenati a causa del quasi collasso delle istituzioni, sia di elementi jihadisti e salafiti intenzionati a fare piazza pulita della millenaria presenza cristiana in Siria. A Damasco come nel nord-est quasi nessuno di quelli che hanno parlato con me ha accettato di farsi fotografare; nessun profugo dei 15 centri di accoglienza di Damasco e nessuno dei giovani volontari che operano presso queste strutture ha accettato che io prendessi le loro immagini: tutti hanno paura di subire rappresaglie da parte dei ribelli.

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